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venerdì 5 settembre 2025

GLI UOMINI PESCE

 




Gli uomini pesce - Wu Ming 1

Recensione di Miriam Donati

Quel ch’era drito, ‘desso l’è roverso,
combàtare col Po l’è tempo perso.
Gino Piva poeta polesano (1873-1946).

Visionario, debordante, romanzo-romanzo finalmente. Non autofiction, non ricerca del proprio ombelico. Passato e presente che si intersecano e memoria da rivendicare, da riscrivere mescolando realtà e finzione infischiandosene del politicamente corretto. Un mix di pezzi musicali, cronaca, citazioni colte, da Lovercraft vero o finto a Igor il Russo, quello sì vero, dalla geografia al clima, dalla ricerca di senso al mistero degli uomini pesce, sogno o simbolo dispiegato in quel mondo mitico e fantastico che è il Delta del Po, vita e morte, nascita e rinascita, protagonista assoluto del romanzo.

L’autore Wu Ming 1, al secolo Roberto Bui, ci racconta nei Titoli di coda in fondo al libro della sua composizione durata molti anni e lo definisce “un libro di viaggi e pellegrinaggi tra Ferrara e il Delta del Po durante la Resistenza, negli anni Sessanta-Settanta e nel 2022. Una saga familiare sui generis: la storia della famiglia Nevi dall’avvento del fascismo alla morte del suo enigmatico patriarca. Un tributo al Grande Fiume e alle sue terre, intreccio di vicende bassopadane con omaggi dichiarati e no a Bassani, Bacchelli e ad altri narratori della pianura. Il mio romanzo più personale, anche se perfettamente collegabile alla poetica di Wu Ming.”

È un romanzo a strati, complesso, multiforme, inizia nel 2022, durante una delle peggiori estati mai viste sul Delta per la siccità, quando, all’età di novantanove anni, muore per un colpo di calore Ilario Nevi, partigiano, cineasta, pittore, ambientalista della prima ora. Sua nipote Antonia, geografa all’Università di Padova, di cui lui è stato il principale mentore, è investita della sua pesante eredità che la coinvolge insieme a Sonic, suo compagno musicista. Prende forma il primo piano temporale del romanzo: dopo il post-pandemia che ha marchiato corpi e coscienze, abbiamo lo stato d’emergenza, il razionamento dell’acqua e il cuneo salino dell’Adriatico che raggiunge i quaranta chilometri dalla foce del Po. Antonia inizia la ricerca per ricostruire l’identità dello zio, scoprendo enigmi e segreti sconvolgenti e poiché come il Po, è anche lei in crisi, soffre di “ansia climatica”, scoprirà qualcosa anche di se stessa. Territorio e personaggi sono in simbiosi. Se Antonia è il Grande Fiume, Ilario sono le valli del delta, con una natura sfumata tra terra e acqua, anfibia. Prende forma così il secondo piano temporale, quello della Resistenza con gli stretti legami vissuti nel Delta e con la scoperta dell’amicizia quarantennale di Ilario con un altro antifascista, Erminio Squarzanti, entrambi compagni di lotta di Renata Viganò.

Il Delta con la sua terra sommersa sotto il livello del mare con le valli e i canali tortuosi e misteriosi, sfuggente perché è un territorio mutevole modificato nel corso dei secoli dai fiumi e dagli interventi umani, un territorio apparentemente naturale, ma invece altamente tecnologico perché sono le idrovore che pompano acqua incessantemente per mantenere la pianura coltivata, quando invece la sua vocazione è ritornare a essere palude; un labirinto dove si nascondono i segreti di Ilario ed è il luogo dove è nato e vissuto l’autore, che l’ha studiato a fondo e dove la geografa Antonia percorre il suo viaggio, non solo nella memoria per scoprire i segreti dello zio, lei ama quel territorio, lo ha esplorato, lo zio gli ha dedicato documentari mentre era membro di Italia Nostra quando presidente era Giorgio Bassani (che compare nel libro come personaggio), e si tormenta per lo stato in cui si trova e per il futuro che sembra segnato: tornare sott’acqua con l’innalzamento del mare e la consapevolezza di ciò oltre a influenzarla, ne definisce la personalità e rende la scrittura trascinante.

È difficile raccontare la trama del romanzo per il continuo intrecciarsi di trame e sottotrame, di rimandi ad altre narrazioni del collettivo Wu Ming, soprattutto per non svelare troppo, si può accennare agli aspetti più intriganti, come l’uso delle lingue. Il compagno americano di Antonia può parlare solo inglese, una condizione paradossale che unisce alla possibilità di capire e apprendere rapidamente tutte le altre lingue e in mezzo a questa condizione c’è l’italiano e i dialetti.

Uno dei pregi del libro è l’aver creato un cortocircuito tra realtà e fantasia perché su territori e fatti del tutto reali si innestano racconti e personaggi di fantasia e il lettore non sa cosa sia vero e cosa no. Anche i titoli dei film realizzati da Ilario, dei libri di Antonia e dei dischi di Sonic, corredati da un’accuratissima bibliografia fantastica, sono talmente verosimili da chiedersi se esistano veramente. E che dire della presenza di Lovercraft nel Delta e della band che suona pezzi a lui ispirati? E la caccia tra i canali di Igor il Russo?

Uno dei temi principali è la persistenza dell’oppressione a cui contrapporre immaginazione e fantastico in una forma di resistenza quotidiana. Antonia e Sonic sono personaggi resistenti e mappano il territorio in funzione della lotta dello zio eletta a ragione di vita in una incessante ricerca di chiarimenti e allo stesso tempo si battono contro quell’oppressione che sembra non finire mai: prima il nazifascismo, poi la sua continuità sottotraccia nelle istituzioni repubblicane fra bombe e stragi, poi la generazione di amministratori del territorio senza scrupoli che hanno cementificato preparando il terreno alle inondazioni, devastando la costa emiliano-romagnola con gli alberghi.

Per raccontarci questa resistenza il racconto diventa polifonico con voci molteplici nel testo e stili e registri diversi (uno narrativo, uno poetico e uno saggistico) che corrispondono alle voci dei personaggi, oltre al rapporto continuo con altre opere (Pendolo di Foucault di Eco, L’Agnese va a morire di Viganò, le opere di Bassani). Un inserto è costituito dal memoriale di Ilario ritrovato da Antonia, pieno di parole cancellate e illeggibili che lo fanno assomigliare a Petrolio, il romanzo incompiuto e inedito di Pasolini. Riferimenti numerosi anche al cinema, per esempio Sylvia Scarlett di George Cukor (in Italia Il diavolo è femmina) perché Antonia assomiglia alla protagonista Katherine Hepburn.

E all’improvviso all’interno del racconto entra un elemento fantastico e fantasioso che esplode e cambia tutto. Si rimane spiazzati, ma nemmeno troppo stupiti quasi che l’estraneità sia anche familiare come nelle credenze popolari. Chi sono gli uomini pesce? L’autore dice di essersi ispirato all’Homo Saurus, un rettile antropomorfo avvistato negli anni Ottanta nel Po (ne scrisse il Resto del Carlino e gli fu dedicato un libro nel 2004 da Cartografica Edizioni). Pochi anni dopo si era sparsa la voce di un ritrovamento di un diario inedito di H,P, Lovecraft venuto nel Delta alla ricerca di questi antichi uomini pesce nascosti sulla terra da milioni di anni e che i pescatori avevano sempre raccontato di aver visto affiorare dall’acqua. Homo Bracteatus lo chiama Ilario in alcuni disegni e ritratti ritrovati da Antonia che “dava l’idea dello squalo, ma era altro. Gli occhi erano neri. Neri. Di un nero abissale. Pozzi profondo di milioni di anni, profondi quanto il tempo, e nel lontanissimo fondo di quei pozzi dovevano ruotare gorghi che trascinavano ancora più in basso, ancora più indietro del tempo stesso”. Si tratta di esseri che appaiono solo di notte nella migliore tradizione delle leggende dell’antica e oscura storia del territorio del Delta, spiriti guida o misteriosi custodi; apparizioni che rappresentano il desiderio di un altrove che non c’è. Il confine tra sogno e realtà è labile e poco importa scoprirlo perché questo testo sfugge a qualsiasi definizione o etichetta. Si entra in contatto pagina dopo pagina con tanti e diversi temi compresenti che si aggregano, si incrociano e la questione climatica che fa da collante al tutto diventa uno sguardo esterno e sposta il punto di vista sostenendo la conservazione dell’ambiente nel suo complesso indipendentemente dall’uomo.  

È un libro di straordinarie geografie rivoluzionarie dove tutti i temi toccati, la resistenza, l’ambientalismo, l’aspirazione alla rivoluzione in ogni tempo, l’idea di un mondo diverso ancora possibile per il quale vivere e resistere si concilia con la scrittura che qui sembra fare il suo meraviglioso lavoro di mischiare autore e lettori.

 

Genere: Narrativa

Anno di pubblicazione 2024

 


martedì 29 luglio 2025

HO PAURA TORERO

 




Ho paura torero - Pedro Lemebel

Recensione di Miriam Donati

 

La primavera era arrivata a Santiago come ogni anno, ma arrivava con colori vivaci che gocciolavano i muri di graffiti violenti, Slogan libertari, mobilitazioni sindacali e marce studentesche disperse in puro guanaco. A tutta velocità, le capre dell'università resistevano al flusso sporco dei poliziotti. E ancora e ancora tornarono alla carica, scendendo in strada con la loro tenerezza molotov infiammata di rabbia. Con una bomba pulita hanno tagliato l'elettricità e tutti hanno comprato candele, accaparrandosi candele e ancora candele per illuminare le strade e i fossati, per innaffiare la memoria con le braci, per accendere l'oblio. Come se stessero calando la coda di una cometa che sfiora la terra in omaggio a tanti scomparsi"

 Ho paura torero è ambientato a Santiago del Cile negli anni Ottanta, uno stato di polizia repressivo dove la militanza progressista si esercita dalla clandestinità sociale e la militanza LGBTQIA+ dalla clandestinità individuale.

Lemebel scrive in modo meraviglioso, la sua carica visiva è molto alta e colloca perfettamente il lettore nell'atmosfera dell'epoca. Il suo stile è barocco, sovraccarico, colto, provocatorio, irriverente, sarcastico, coinvolgente, immaginario e ricchissimo dal punto di vista lessicale. Leggerlo è un piacere, le parole scorrono e si trasferiscono in un dipinto dove quello che sta succedendo appare in modo plastico.  Ha un linguaggio che è un miscuglio tra il colloquiale, persino volgare, e il poetico. Il lirismo racchiuso nella sua narrazione rende questo romanzo una grande opera d'arte da godere semplicemente lasciandosi trasportare dalla sua musicalità e bellezza. Una prelibatezza da gustare lentamente e tornare a leggere solo per il piacere di gustarla ancora. La letteratura nella sua forma più pura.

La storia è dura e triste ma allo stesso tempo folgorante e giocosa, piena di sordidezza, miseria, violenza e ingiustizia ma anche di una dignità infrangibile, di quelle che ci permettono sempre di sentire una brezza, per quanto tenue, di speranza per un'umanità e una società che il più delle volte è orribile. In questa triste situazione Lemebel mette in scena il tentativo di assassinare il dittatore Pinochet insieme alla nascita di un amore impensabile.

Un giovane militante del Fronte Patriottico Manuel Rodríguez, che partecipa alla preparazione dell’attentato, incontra La Fata dell’Angolo (nella traduzione italiana) Loca del Frente (nella versione originale), un trans che lo sostiene, senza esplicita conoscenza, nei suoi piani politici. Le tensioni della relazione e le tensioni della preparazione e dell'esecuzione dell'attentato tengono il lettore sulle spine.

I monologhi interiori della Fata dell’Angolo in prima persona, contrastano con la narrazione in terza persona che descrive gli eventi da un punto di vista più oggettivo inseriti in una struttura lineare. Tali monologhi sono brillanti per la capacità espressiva e rivendicativa della Fata innamorata di Manuel, sarta di tovaglie per le mogli dei generali golpisti, cantante delle coplas di Sara Montiel (Ho paura torero è un verso di una sua canzone). Questo rapporto si svolge in un contesto ben disegnato: le proteste, le gomme che fumano per le strade della capitale, i blackout, il rintocco, spesso angoscioso, del "Diario de Cooperativa", i boleri, le rancheras e le ballate dell'epoca, Pinochet alle prese in intimità con i suoi fantasmi e incubi, e con Lucia, la moglie logorroica, infatuata degli ultimi modelli di Nina Ricci.

La Fata dell’Angolo, protagonista e testimone, accattivante personaggio carnevalesco, ponte tra sogni e miseria, è sdolcinata e kitsch perché è il suo modo di affrontare la bruttezza del mondo, a testa alta, senza nascondere la sua condizione di transessuale, esagerando la propria femminilità. Un personaggio tenero, commovente, coraggioso, onesto, leale, potente che ha dovuto superare un passato di abusi ed emarginazione. Deve vivere praticamente ai margini della società, nel suo mondo folle, con lo stigma di essere transessuale in un paese e in un tempo sotto l'oppressione della dittatura; lo si adora fin dal primo incontro, si soffre per lui fino all'ultima pagina. La Fata, nonostante il suo passato difficile, il suo presente triste e il suo futuro incerto, è capace di creare magie, di portare sorrisi, di creare bellezza con i pochi mezzi che ha a disposizione, e, soprattutto, dà una grande lezione di dignità con la sua gentilezza e il suo carisma. E non è ingenua, non si lascia ingannare da Carlos e dai suoi amici, sa benissimo in cosa si sta cacciando. Perché, nonostante la differenza di età, si è innamorato.

In definitiva, la Fata dell’Angolo è un personaggio che sfida le norme sociali e culturali del suo tempo e che lotta per essere accettato e rispettato da coloro che la circondano. La sua presenza nel romanzo è fondamentale per lo sviluppo del personaggio di Carlos, e per l'esplorazione di temi come l'identità, la sessualità e la discriminazione. Tematiche dolorosamente vicine all’autore, ne consegue un’eccezionale capacità nell’evocare sensazioni, turbamenti, percezioni: i moti interiori dei suoi personaggi sono descritti in maniera pura e genuina, con una maestria che incanta e turba il lettore, alternando passaggi struggenti a uno stile tutto sommato beffardo e irriverente, rendendo l’opera ricca di sfumature e di chiavi interpretative.

Come si legge nella quarta di copertina, "Pedro Lemebel ricostruisce l'amara e sordida realtà della dittatura, avvolgendola in orpelli e paillettes, al ritmo di boleri e canzoni d'altri tempi. Intreccia militanza politica e dissidenza sessuale, scrittura e oralità, cultura alta e cultura popolare", la cultura popolare infatti è un elemento chiave nel libro. Attraverso la musica, il cinema e la televisione, Pedro Lemebel costruisce un universo narrativo ricco e complesso che riflette la realtà sociale e culturale del Cile di quegli anni.

Ci sono due brani eccezionali nel libro, il primo è la maestria nel raccontare in contemporanea l'attentato al dittatore e la scena del cinema gay. E il secondo ha a che fare con ciò che lo stesso Lemebel ha detto del suo stile, "la rabbia è l'inchiostro della mia scrittura"; quella rabbia, quasi una vendetta, ha il suo culmine nella reazione che Lemebel immagina di Pinochet dopo l'attentato, "sul sedile posteriore, il Dittatore tremava come una foglia, non riusciva a parlare, non riusciva a pronunciare una parola, statico, senza muoversi, senza riuscire a sistemarsi sul sedile. Piuttosto, non voleva muoversi, seduto sul caldo intonaco della sua merda che gli scorreva lentamente lungo la gamba, lasciando uscire il fetore putrido della paura. Olé!

I temi affrontati sono vari: violenza, discriminazione, amore e lotta per diritti e libertà.

La violenza è utilizzata per esplorare la realtà politica e sociale del tempo in cui si svolge la storia ed esplorare la psicologia dei personaggi. Pedro Lemebel mostra la brutalità del regime militare cileno e la repressione subita dai gruppi emarginati della società, come gli omosessuali e i dissidenti politici. La violenza subita ed esercitata è una manifestazione del loro dolore e della loro rabbia per l'oppressione che subiscono. In questo senso, la violenza diventa una forma di resistenza e di lotta contro il sistema oppressivo.

Attraverso la figura della Fata, Lemebel ci mostra la lotta quotidiana di un transessuale per trovare il proprio posto in una società che lo emargina e lo discrimina. È un personaggio complesso e poliedrico che sfida gli stereotipi di genere e sessualità. È un uomo che si veste da donna e che si innamora di un guerrigliero rivoluzionario, ma è anche un essere umano con paure, desideri e sogni. vive ai margini della società ed è costretto a nascondere la sua vera identità per sopravvivere. Lemebel tramite le sue traversie ci mostra la crudeltà e l'ingiustizia del regime militare e come ha colpito le persone più vulnerabili della società. Lemebel non romanticizza o idealizza la sua vita, ma ci mostra le difficoltà e i pericoli che affronta per essere ciò che è nella società cilena dell’epoca.

Man mano che il romanzo procede, la Fata dell’Angolo diventa una sorta di mentore per Carlos, aiutandolo a esplorare la propria sessualità e a capire meglio il suo posto nel mondo. Attraverso le loro conversazioni Carlos inizia a rendersi conto che l'identità sessuale è fluida e mutevole, e che non esiste un unico modo di essere maschio o femmina.

La passione e il desiderio si mescolano con l'incertezza e la paura, creando una tensione emotiva che si mantiene per tutto il romanzo. Attraverso il loro amore, entrambi i personaggi sfidano le norme e i pregiudizi di una società conservatrice e repressiva. Pedro Lemebel in modo crudo e onesto riesce a creare una storia d'amore che trascende i limiti del convenzionale e diventa una forma di resistenza e lotta contro l'oppressione e l’ingiustizia, una sfida alle norme e ai pregiudizi di una società conservatrice e repressiva.

 

Genere Narrativa

 Anno di pubblicazione: Italia 2011


mercoledì 16 luglio 2025

VERTIGINE

 




Vertigine - Franck Thilliez

 Recensione di Miriam Donati

 

Un Franck Thilliez che anche in questo libro non smentisce la fama di autore di thriller psicologici ricchi di suspense e noto per le sue storie angoscianti che impediscono al lettore di lasciare la lettura.

Usa un'arma che conosce fin troppo bene: la cattività. Sfrutta e manipola gli angoli più piccoli del cervello ed esplora tutti i meandri dei centri nevralgici alla ricerca delle fobie più profonde. Fobie che esplora in 330 pagine di oscurità, isolamento, freddo e abbandono. Come si fa a non impazzire sapendo che si precipiterà in una minacciosa e gelida voragine e che si scomparirà in fondo a un abisso ostile fin dalla prima pagina?

Basta immaginare per qualche secondo come si potrebbe reagire alla notizia della certezza che si sta per morire. Cosa accadrebbe al cervello? Come si reagirebbe se ci si trovasse accanto altre persone nella stessa situazione?

Domande che Jonathan Touvier e altre due persone dovranno porsi perché si ritrovano in questa orrenda situazione. Jonathan, padre di una giovane ragazza di nome Claire – al contrario di oscura? – e marito di Françoise, malata terminale di leucemia.

È incatenato al polso da una catena con un secondo individuo, Farid, un giovane arabo, anche lui incatenato, ma alla caviglia. Anche un terzo uomo, Michel, si trova in questa tana ghiacciata, libero di muoversi, indossa una maschera d'acciaio che esploderà se si allontana oltre una certa distanza dalle altre due persone. Con loro c'è anche Pokhara, il fedele cane di Jonathan.

Hanno solo il minimo indispensabile per sopravvivere e su ciascuna delle loro giacche è scritta una frase:
Chi è il bugiardo?
Chi è il ladro?
Chi è l'assassino?

Cosa hanno fatto questi personaggi per meritare questo? Qual è il legame che li unisce? Fino a che punto riusciranno a spingersi per sopravvivere? Ci si rende conto che tutto ruota attorno a Jonathan, il narratore, un alpinista che ha dei segreti da nascondere.

Franck Thilliez gioca con i nervi del lettore con questo enigma machiavellico e soffocante. In questo abisso buio e gelido dove tre uomini, che sembrano non avere nulla in comune, si ritrovano bloccati. È in questo luogo ostile e tetro che devono scoprire perché sono rinchiusi qui. Termini come fiducia, promessa o aiuto reciproco hanno ancora senso quando la vita è totalmente in prestito? Al contrario ci saranno solo diffidenze, dubbi, bugie e paure. Questa orrida situazione, in cui sembra non esserci alcuna speranza, rivelerà i meandri tortuosi delle loro anime e il lato oscuro di ciascuno. Il loro istinto di sopravvivenza prenderà il sopravvento, i personaggi si distingueranno, si deformeranno e si indeboliranno. L'aiuto reciproco sembra essere la soluzione migliore, ma fino a che punto la vita dell'altra persona conta di più? In queste condizioni atroci e inimmaginabili anche il lettore è immerso nel buio più totale. Rivelando gradualmente dei tre personaggi i punti di forza, le loro debolezze e i loro segreti, Thilliez, con la sua scrittura emozionante e padroneggiata perfettamente, aumenta la tensione a ogni pagina, distilla riflessioni sulla paura, la vigliaccheria, l'identità sessuale con un filo conduttore come barra: la necessità e il libero arbitrio. Brevi capitoli rafforzano questo clima terribile e oppressivo.

Conclude la sua storia claustrofobica in un modo che farà riflettere a lungo alla fine della lettura di questo thriller oscuro, implacabile, inquietante.
Nell’epilogo dice: "Questo romanzo ha una sola soluzione. E non è necessariamente quello che pensi”. Ebbene, forse occorrerà rileggere Vertigine, giusto per controllare alcune cose.

Un piccolissimo dettaglio fa la differenza...

 

Genere Thriller

Anno di pubblicazione 2023


mercoledì 18 giugno 2025

OGNI MATTINA A JENIN

 




Ogni mattina a Jenin Susan Abulhawa .

recensione a cura di Miriam Donati


Dalla "nakba" o cataclisma che ha visto l'invasione della Palestina o, per dirla in altro modo, la fondazione dello Stato di Israele sono passati 77 anni.

Mi aveva sorpreso quando lo lessi per la prima volta più di dieci anni fa che Ogni mattina a Jenin fosse stato il primo romanzo mainstream in inglese a esplorare la vita nella Palestina post 1948 e vale la pena ricordare che la stabilità e la distanza di cui la letteratura ha spesso bisogno sono state scarse per i palestinesi.

L’ho ripreso sull’onda delle notizie che ci arrivano quotidianamente da Gaza, dove orrore e dolore si mescolano all’impotenza.

Il libro di Susan Abulhawa trasporta nell’aspra geografia di Palestina e Israele e nel cuore della lotta tra due parti bloccate in un conflitto senza fine, esaminando quel conflitto dal punto di vista di una scrittrice palestinese. Narra la storia di una nazione e di un popolo attraverso racconti di vite ordinarie vissute in circostanze straordinarie. Poco sensazionale, a volte persino ingenuo, ha un'atmosfera che permette agli eventi di parlare da soli.

La storia segue le vicende della famiglia Abulheja, palestinesi, obbligati a lasciare le loro case a Ein Hod nel 1948 dai soldati israeliani e trasferiti in massa a Jenin, un campo profughi in Cisgiordania, soprattutto attraverso Amal, nipote del capostipite, con le drammatiche vicende dei suoi due fratelli, costretti a diventare nemici: il primo rapito da neonato e diventato un soldato israeliano, il secondo che invece consacra la sua esistenza alla causa palestinese. E, in parallelo, si snodano amori, lutti, matrimoni, maternità e, soprattutto la storia della Palestina, intrecciata alle vicende di questa famiglia che diventa simbolo delle famiglie palestinesi nell'arco di quasi sessant'anni.

Il capitolo finale è ambientato a Jenin nel 2002, all'indomani dell'attacco militare israeliano e della battaglia che è durata dodici giorni provocando distruzione e morte.

L'autrice illustra scrupolosamente l'impatto del conflitto sulle vite individuali, esplorando le profondità emotive dei suoi personaggi, illustrando soprattutto il peso della perdita e della memoria.

Tutti i personaggi sono dipinti con pennellate sfumate, rivelando le loro speranze, sogni, paure e momenti ordinari. Questa molteplicità consente la comprensione di come gli stessi eventi possano influenzare gli individui in modo diverso e mette in evidenza l'impatto intergenerazionale del trauma dello sradicamento.

Le donne nella storia sono ritratte non solo come vittime, ma come partecipanti attive alla lotta per il ritorno alla normalità. Attraverso il viaggio di Amal, la protagonista, la narrazione sfida le percezioni tradizionali delle aspettative di genere e mette in mostra la resilienza e la forza delle donne. Inoltre, l'intreccio di momenti di gioia e amore in mezzo alla disperazione è una testimonianza della resilienza umana; anche se il libro ritrae la dura realtà della vita in un campo profughi, pur nelle circostanze più cupe, i personaggi trovano momenti di risate, unione e speranza.

L'autrice trova un delicato equilibrio tra narrazione e commento sociale, stimolando a riflettere criticamente sulle implicazioni più ampie della narrazione. La trama tocca le complessità della resistenza, della vendetta e dell'impatto della presenza militare sulla vita dei civili, mantenendo una narrazione profondamente personale.

Lo stile di scrittura di Abulhawa esalta la risonanza emotiva della narrazione. L’uso che fa del simbolismo in alcuni tratti arricchisce il testo sollecitando i lettori a interagire su più livelli.

Uno dei temi centrali è il modo in cui il conflitto rimodella le identità individuali e collettive. I personaggi più giovani come Amal crescono in un mondo in cui la loro patria non è più la loro, il che li porta a mettere in discussione il loro senso di sé e di appartenenza mentre sono alle prese con sentimenti di confusione, perdita e rabbia.

La capacità della famiglia di mantenere i legami, di trovare momenti di gioia e di sostenersi a vicenda evidenzia l'imperativo della speranza anche in situazioni difficili, dimostrando che la resilienza passa attraverso le relazioni inducendo a desiderare un futuro nonostante l'incertezza.

Un altro tema chiave è il ruolo della memoria del trauma, in particolare nel plasmare le vite e le esperienze dei personaggi. Abulhawa mostra come i traumi del passato perpetuino cicatrici emotive che possono influenzare le generazioni future. Questo tema è particolarmente rilevante nel contesto delle tragedie storiche, in quanto esplora come il dolore non guarito possa manifestarsi in vari modi. Le continue lotte dei personaggi con i loro ricordi sottolineano la necessità di comprensione, guarigione e riconoscimento delle ingiustizie passate.

Nel libro ci sono episodi realmente accaduti, c'è la storia di un popolo che è stato sradicato dalla propria terra, e di un altro popolo in cerca di un paese da chiamare casa. Ci sono due punti di vista politici opposti che si danno battaglia. Nonostante la tesi di fondo sia filo-palestinese, non punta a screditare l'altra fazione, ma la nobilita inserendo personaggi ebrei di notevole spessore, fra cui l'amico d'infanzia del padre di Amal, Ari Perelstein.

Il romanzo intreccia realtà personali e politiche, trascinando i lettori nelle vite dei personaggi e illuminando i temi più ampi del conflitto, dell'identità e della resilienza ispirando la riflessione e la discussione. In un mondo sempre più polarizzato, ricorda la nostra umanità condivisa e la ricerca universale di pace e comprensione. In sintesi, Ogni mattina a Jenin è una lettura toccante ed emotiva che trascende i confini della narrativa storica.

Un libro così con una storia che si eleva al di sopra della politica e tocca le corde emotive dei lettori, con stile e grazia aiuta la causa palestinese ad avere giustizia più di mille proclami e conferenze.

Ed è per questo che è apprezzabile al di là dei difetti che per me ci sono: la scrittura in generale è troppo esplicativa e a volte didascalica, ha punte efficaci, quasi poetiche e punte ridondanti, il linguaggio figurato è carico di metafore e similitudini, che conferiscono al testo (specialmente negli ultimi capitoli) un tono a volte troppo enfatico. L’alternanza fra la terza e la prima persona è calzante in particolare nei momenti di maggiore tensione, in altre parti resta però sconnessa.

 

Genere Narrativa storica

 Anno di pubblicazione 2010

lunedì 2 giugno 2025

LA FELICITA' DOMESTICA

 




La felicità domestica - Lev Tolstoj

Recensione a cura di Miriam Donati

 

La felicità domestica di Lev Nicolaevic Tolstoj, scritto a Jasnaja Poljana nel 1859, è uno dei primi romanzi di Tolstoj e anticipa nel personaggio di Masha quell’irrequietezza emotiva che saranno tipiche di Anna Karenina nel romanzo omonimo e della Bezuchova in Guerra e Pace.

Un’irrequietezza che è voglia di cambiamento e di distrazione, a volte un po’ futile, a volte profonda come voglia di libertà. Irrequietezza che si scontra di solito con la posa tranquilla dei personaggi maschili, riservati, orgogliosi, distaccati perfino, nei confronti delle donne.

La stessa irrequietezza, quando appartenente al genere maschile, viene di solito giustificata come tipica espressione della giovane età che con la maturità diventa solo un ricordo, mentre non viene perdonata alle giovani donne.

Nel finale addirittura la protagonista rimprovera il marito per non averle impedito di essere libera nei comportamenti. Un punto di vista dell’autore squisitamente maschile, maschilista e patriarcale. Del resto Tolstoj visse la propria storia matrimoniale con la moglie Sofia tra alterne fortune, tra attrazione e litigi, fino a una fuga, mai indagata del tutto, a 83 anni, e alla morte nella piccola stazione di Astapovo, senza rivedere la consorte mentre era ancora cosciente.

Archiviato il suo maschilismo, resta il fatto che Tolstoj è un grandissimo scrittore sia nelle descrizioni, sia nell’indagine psicologica dei personaggi e qui a una delle sue prime prove già dimostra la sua grandezza affrontando il tema dei rapporti coniugali mettendone in luce fragilità e contraddizioni con finezza e con un titolo provocatorio che è quasi un ossimoro.

Forse è l’unica volta in cui Tolstoj parla in prima persona con una voce femminile.

Nella prima parte Masha, una ragazza diciassettenne, rimasta orfana, si innamora del proprio tutore trentaseienne Sergei Mihailovic, che vede come suo protettore, mentre lui, più esperto e sicuro dei propri sentimenti, nonostante le remore per la giovane età e per la mancanza di esperienza della ragazza che potrebbero portare a rapidi cambi di prospettiva vista la rinuncia prematura ai piaceri della giovinezza, alla fine si lascia trascinare dal sentimento.

Si sposano e vivono per il primo anno in campagna nella villa della madre di lui trascorrendo un periodo idilliaco.

Nella seconda parte la relazione si deteriora dopo il trasferimento della coppia a Pietroburgo a causa dell’insoddisfazione e dell’inquietudine della protagonista che si sente isolata e poco gratificata dalla vita controllata e poco vivace della campagna. In città diventa protagonista della vita mondana, ammirata dai corteggiatori, rasenta la possibilità di tradimento, si rende conto della frivola inconsistenza abbracciata negli ultimi tempi e chiede pentita di tornare in campagna al marito che, nel frattempo, l’ha lasciata provare questa esperienza di libertà raffreddando a sua volta la propria passione.

La coppia non tornerà quella di un tempo, i sentimenti si sono evoluti in un pacato assestamento, una felicità domestica, appunto. La trasformazione del sentimento amoroso è raccontata attraverso il confronto con la maturità acquisita lasciando però nel lettore un retrogusto amaro.

La tensione tra desiderio di stabilità e desiderio di libertà trova una sintesi nel riconoscimento che la felicità coniugale non è data una volta per tutte ma richiede costante adattamento e consapevolezza sia delle proprie pulsioni, sia di una ricerca di equilibrio nell’esplicitarle e convogliarle nell’alveo di coppia.

Lo stile espressivo di Tolstoj è straordinario, le sue descrizioni della natura sono da manuale e assurgono a simboli della malinconia e della nostalgia come nessun altro ha fatto.


Genere Narrativa

Anno di pubblicazione 1859

 

 


sabato 17 maggio 2025

ETHAN FROME

 




Ethan Frome - Edith Wharton -

Recensione di Miriam Donati

 

L’autrice scrive questo libro nel 1911 e usa una struttura a incastro per raccontare la storia principale. Introduce un anonimo narratore, un ingegnere che rimane affascinato dalla figura enigmatica di Ethan Frome quando, per lavoro, giunge a Starkfield, nel New England, paesino di montagna dove tutti si conoscono, gli inverni sono lunghi e la neve e il ghiaccio sembrano eterni e sono presenti anche nei caratteri dei personaggi congelati nella routine contadina senza pulsioni.  Attraverso le conversazioni con i residenti del posto scopre a poco a poco le tragiche circostanze del passato di Frome. Questa struttura permette alla Wharton di creare suspense e gradualmente rivelare la profondità del carattere di Ethan e le caratteristiche della tragedia che lo ha colpito. Attraverso vari flashback racconta le sue ambizioni sacrificate e la conseguente vita disperata. Inizialmente aspirava a diventare ingegnere e lasciare Starkfield, ma i doveri familiari per prendersi cura della fattoria e dei parenti malati lo hanno bloccato. Dopo la loro morte, per senso del dovere, sposa la cugina Zeena che lo aveva aiutato nella cura della madre; il matrimonio è senza gioia ed è esacerbato dalla natura lamentosa e apparentemente ottusa di Zeena che nasconde dietro la sua ipocondria una fibra e una volontà fortissime e l’esistenza di Ethan fatta di sola infelicità scorre in una rassegnazione silenziosa.  

L'arrivo di Mattie Silver, cugina di Zeena, introduce nuove dinamiche in casa Frome. La giovinezza e la vitalità di Mattie che porta un po’ di colore nel grigiore gelido del posto contrastano nettamente con la presenza malata di Zeena ed Ethan è presto attratto da lei. La loro relazione si sviluppa mentre condividono momenti domestici e i sentimenti di Ethan per Mattie si approfondiscono, culminando in una serata commovente in cui restano soli insieme. Qui si evidenzia la bravura della Wharton nella descrizione dei sentimenti, dalla nascita dell’amore, alla tenerezza e alla serenità che raramente Ethan ha provato durante la sua esistenza, sino ai sogni di fuga dal suo lugubre immutabile quotidiano e gli fa intravvedere una vita emotivamente più viva e migliore data dal calore di Mattie.

“Poi vi erano altre sensazioni, meno definibili ma più squisite che li attiravano l’uno all’altra con un palpito di gioia silenziosa: un freddo rosso tramonto dietro le colline invernali, la fuga di un gregge di nuvole sui pendii di stoppie dorate, o le ombre intensamente azzurre degli abeti sulla neve.”

L’autrice associa sempre le emozioni al paesaggio e questi accostamenti rendono il lettore ancora più partecipe.

La rottura di un piatto di vetro rosso di Zeena, un incidente che si verifica durante questa serata, diventa simbolo della fragilità della situazione dei due innamorati e prefigura le conseguenze devastanti del loro crescente attaccamento. Il lettore si rende conto che in questa rottura c’è tutto il significato del libro: quel che Ethan vorrebbe essere se solo ci provasse. In questo caso fuggire con Mattie.

E poi c’è la tensione data dalle radici, dai luoghi che definiscono le persone, a cui vorrebbero sfuggire o forse solo cambiare, ma a cui appartengono e a volte le imprigionano. Senza via d’uscita. L’autrice descrive una situazione di sofferenza molto realistica dove l’urlo del proprio dolore è soffocato nel silenzio. Una visione molto pessimistica della vita: vivere non è altro che desiderare ciò che non si può avere.

La vita di Ethan è una testimonianza del potere delle aspettative della società e dell'obbligo personale contro i desideri poiché rimane in un matrimonio senza amore con Zeena a causa del dovere e della pressione sociale, mentre il suo cuore desidera Mattie. Wharton ci racconta la povertà e lo squallore della provincia rurale americana e sottolinea che almeno con il denaro, che non farà la felicità, però dà almeno la possibilità di voltare pagina, di seguire un sogno senza lasciare chi resta nell’indigenza. La tragica ironia della storia è racchiusa nel tentativo di Ethan di sfuggire alle costrizioni della sua vita attraverso un giro suicida in slitta, che invece di garantire la libertà, lo lega ancora più strettamente a una realtà cupa e immutabile, mentre diventa il custode di due donne, tutti immersi in un dolore inutile a cui non ci si può ribellare raccontato dall’autrice con pacato fatalismo.

Il simbolismo del colore rosso della slitta, della sciarpa e del piatto di vetro in frantumi rappresenta la passione proibita e la violazione delle norme sociali. La slitta inizialmente simbolo di gioia e fuga alla fine diventa simbolo di un tragico destino. L’ultimo, spericolato giro in slitta, inteso come mezzo per sfuggire alle circostanze insopportabili, si traduce in un incidente catastrofico che altera irrevocabilmente le vite dei protagonisti, però in quella corsa vediamo fallimenti e speranze, forza e dolcezza, illusione e disperazione del nostro stare al mondo.

I personaggi di "Ethan Frome" sono disegnati in modo approfondito, soprattutto Ethan, eroe tragico, sempre titubante. Il romanzo si conclude con una potente rappresentazione delle ferite fisiche ed emotive del protagonista che simboleggiano l'impatto duraturo delle sue scelte e la natura ineluttabile del destino. Si prova compassione per tutti i personaggi intrappolati in un bianco, immobile e grottesco destino.

 

Genere Narrativa

 Anno di pubblicazione 1911

 

 


martedì 6 maggio 2025

V 13

 




V13 - Emmanuel Carrère

 Recensione di Miriam Donati

 

Carrère è sempre stato affascinato dai meccanismi che muovono la mente umana. Tenace e puntiglioso osservatore di esistenze eccezionali da Limonov a L’avversario (in quest’ultimo indagava una vita di menzogne che portava allo sterminio della propria famiglia), fino a questo libro in cui si occupa degli attentati terroristici di venerdì 13 novembre 2015 (da qui il titolo) al Teatro Bataclan, allo Stade de France e a bistrot e ristoranti di Parigi che hanno causato la morte di centrotrenta vittime e il ferimento di altre trecentocinquanta.

Ogni mattina, a partire dall’8 settembre 2021, per dieci mesi, lo scrittore si è seduto nell’aula del processo intentato contro l’unico superstite dei terroristi e gli altri complici o fiancheggiatori e ha ascoltato il resoconto implacabile di quanto accaduto, interessato alle esperienze di morte e di vita e raccontandole sui principali quotidiani europei con una serie di articoli che sono diventati, ampliati, questo libro.

L’autore porta con sé il lettore in un percorso impietoso con rispetto, umanità e pudore dilatando i punti di vista senza dare giudizi e affrontando una realtà sfuggente e inspiegabile.

Il racconto tragico delle vittime domina la prima metà del libro con testimonianze che evocano immagini terribili e tanta disperazione per l’orrore fisico subito e il senso di colpa dei sopravvissuti per chi avrebbero potuto soccorrere o per essere stati costretti a una scelta. Una tragedia collettiva che Carrère trasforma in una unicità per ogni descrizione frammentaria e organica allo stesso tempo che fa. Una trafittura per il lettore. Carrère è soprattutto interessato alla reazione delle vittime, quasi nessuna di loro chiede vendetta, vogliono solo ascolto e un processo equo con pene commisurate per gli imputati.

Lo scrittore non cade nella retorica o nella morbosità, cerca nell’inferno della morte una speranza di vita individuandola in due testimoni: Nadia Mondeguer e Georges Salines, genitori di due giovani vittime, che non rinunciano alla propria umanità e non si lasciano sommergere dal pur comprensibile senso di vendetta rappresentato da un altro genitore Patrick Jardin. Carrère cerca un senso alla logica comportamentale degli imputati e lo cerca insieme a Nadia, nata a Il Cairo e che va spesso a trovare durante il processo, ma non lo trova e non lo troverà nemmeno alla fine. Cita Spinoza “Non deridere, non compiangere, non condannare, comprendere soltanto.”

Esemplare è il senso di impotenza delle vittime: la mancanza di reazione o la volontà di reagire alla violenza subita, in parte dovuta all’evento improvviso, ma per gran parte dovuta allo smarrimento generale, all’incapacità di leggere gli eventi e a una perdita di radicamento. Impotenza assimilabile a quella dell’intero Occidente incapace di controllare effettivamente il proprio territorio, in questo caso lasciando fuggire uno dei terroristi a Bruxelles. La paura degli attentati ridotta alla sola chiusura con muri senza fare veramente i conti con la propria identità persa quasi del tutto. Da un lato chi si sente martoriato e in guerra con gli occidentali, dall’altro chi spesso è inconsapevole delle conseguenze dell’intervento militare dei propri governi in Iraq o in Siria a cui gli imputati fanno spesso riferimento per giustificare i loro atti, ripetendo la propaganda dell’Isis.

Carrère racconta nella seconda parte del libro gli imputati, non geni del male, ma personaggi quasi banali e durante le udienze è analizzata la preparazione degli attentati con evidenti “buchi” fatti dalla polizia francese; i tre principali carnefici non ci sono perché si sono fatti saltare negli attentati. Degli altri due: Salah Abdeslam e Mohammad Abrini, due amici, uno fugge prima dell’attentato e l’altro si sfila la cintura esplosiva e fugge a sua volta. Il dilemma dei giudici è capire perché abbiano deciso di non sacrificarsi con gli altri assassini. Gli altri imputati sono solo personaggi di secondo piano. Durante il processo alternano silenzio o rivendicazione. Ed è attraverso altre testimonianze che emerge il loro pensiero. Quella della giudice istruttrice belga che tramite il racconto del quartiere Molenbeek di Bruxelles chiarisce come l’Islam radicale abbia attecchito in Belgio e quella dell’esperto di Islam, Hugo Micheron, che fa emergere come l’integrazione e la società multiculturale post colonialista che spesso ignora le differenze profonde sulle quali sarebbe necessario confrontarsi, abbia fallito. Inoltre Micheron vede negli imputati persone rifiutate, umiliate, emarginate da un sistema socio-economico spietato, senza altra scelta che il crimine o una fede deviata, ma loro non si vedono affatto come vittime o perdenti. Sono piuttosto dilettanti che hanno abbracciato il fondamentalismo per frustrazione verso una società in cui non sono nulla, utili idioti sacrificabili dall’Isis. Lo sguardo di Carrère sul processo fa emergere la complessità di questi problemi, cerca le risposte tra testimonianze e deposizioni, tra l’orrore del massacro e la pietà espressa anche tra genitori delle vittime e genitori dei carnefici. George Salines, padre di una vittima, scriverà un libro insieme al padre di uno dei terroristi che lo ha cercato per un confronto, destando ovviamente scalpore. Carrère rende palpabile il concetto che la politica gestisce purtroppo il problema con approssimazione, se non superficialità e arroganza.

Si passa quindi con la terza parte dalla teoria alla prassi giuridica che deve valutare i comportamenti, le giustificazioni, le colpe, arrivare al termine della notte. Con le arringhe degli avvocati dell’accusa e della difesa, la Corte, il verdetto, la giustizia stessa arriva a essere giudicata. Il processo è stato rigoroso, ma molti nodi restano aperti, per esempio: la condanna all’ergastolo ostativo senza possibilità né di sconti, né di licenze per Salah Abdeslam è una condanna esemplare, ma se fossero stati sotto processo i veri attentatori e non chi è fuggito senza commettere violenza, l’imputato avrebbe avuto una pena più lieve.

La sera della sentenza vede lo scrittore con gli altri giornalisti e gli altri presenti al processo, di cui qualcuno è diventato suo amico, nel solito bistrot frequentato anche nei mesi precedenti e tutti sentono un senso di vuoto; anche il lettore partecipa e ha la sensazione che il processo sia stato insensato e senza scopo. Se gli attentatori sono morti, restano solo le lacrime di chi è rimasto vivo come Nadia che conclude il libro. Nel 2018 torna a Il Cairo dove era stata con la figlia Lamia prima dell’attentato. Nello stesso luogo dove si erano fermate a guardare il tramonto, racconta in arabo a un poliziotto gli attentati e il processo. La solidarietà di quest’uomo per cui i veri martiri della vicenda non sono i terroristi che si attribuivano quel titolo, ma le vittime come la figlia di Nadia, è per Carrère un “raddrizzarsi del mondo”.

In un mondo, così pieno di immagini e di social, approfondire, conoscere e capire un fenomeno talmente complesso e devastante qual è il terrorismo dovrebbe essere facile e invece si fa molta fatica a comprendere e forse restano solo i libri come questo alla fine: una narrazione senza retorica per il lettore che si angoscia di fronte a eventi che lo allontanano sempre di più dalla propria umanità.

 

Genere: saggio/Narrativa

Anno di pubblicazione 2023


lunedì 28 aprile 2025

UN UOMO SOLO

 




Un uomo solo - Christopher Isherwood -

 Recensione di Miriam Donati

 

“L’artista da circo non ha un sipario che cali e lo nasconda, lasciando intatto l’incanto e la magia del suo numero. Sospeso al trapezio sotto il fascio delle luci, ha brillato e tremato come una stella. Ma ora che è a terra, senza i riflettori addosso, eppure chiaramente visibile da tutti – anche se tutti, ora guardano i clown – corre oltre le gradinate, verso l’uscita.”

 

Quante volte ci diciamo a chiusura dell’ultima pagina di un libro che ci manca qualcosa? Succede quando il dispiacere per non avere altre pagine da leggere supera il piacere provato per quelle lette e nel caso di questo testo le due pagine finali splendide e magistrali nella loro narrazione lasciano il lettore abbandonato a una solitudine struggente che è la stessa che prova il protagonista per tutto il suo racconto.

Il romanzo scritto nel 1964, in Italia pubblicato per la prima volta nel 1981, racconta con limpidezza e senza sensi di colpa o vergogna i rapporti amorosi, affettivi e sessuali che intercorrono fra due uomini affidandosi a minute descrizioni dei fatti quotidiani e deviazioni progressive dei pensieri e dei sentimenti approfonditi nel desiderio di verità del narratore che parla di sé al presente in terza persona in una sovrapposizione autobiografica con l’autore che non diventa mai confessione, ma osservazione oggettiva.

Vi si descrive una giornata di George, un apprezzato professore inglese che insegna alla Los Angeles University ai tempi della crisi tra Stati Uniti e Cuba nel 1962. La voce narrante è proprio quella di George che è rimasto solo dopo la morte, a causa di un incidente automobilistico, del compagno Jim e alterna un tono tagliente e sarcastico a un tono che pur scabro e ruvido è ricco e illuminante di riflessioni esistenziali scagliandosi contro la borghesia americana con il suo finto perbenismo, l’omologazione senza fantasia, il consumismo e la finta uguaglianza che lo costringe a indossare una maschera per proteggere la propria omosessualità. Scava con forza in profondità dentro di sé per contrapporre il proprio mondo a quello degli altri per resistere e sentirsi ancora vivo. Sotto le rughe che avanzano si intravvede ancora il ragazzo tenero e affascinante che è stato. Attraverso una routine abitudinaria pensa di poter mantenere per lo meno un precario e abbastanza soddisfacente equilibrio fino a un intoppo imprevedibile.

La sua giornata è un viaggio fisico e mentale sospinto solo dalla voglia di non rimanere completamente solo, scandito da una serie di tappe che attraversa tra dubbi e rassegnazione. È risentito, annoiato, cerca negli occhi dei propri studenti un barlume di ascolto, una risposta di comprensione. Dibatte sul romanzo di Huxley Dopo molte estati muore il cigno e sui temi a lui cari: l’emarginazione, l’esclusione, l’odio razziale, l’identità e la competitività delle minoranze. Ma quando suona la campanella di fine lezione torna a sentirsi di nuovo solo in mezzo a gente che non lo capisce e che non ha ascoltato quello che ha detto.

George non riesce simpatico al lettore, tutt’altro, e questo a causa della sua sincerità nel sentirsi sdoppiato: il confronto con gli altri lo conforta e lo abbatte, le parole lo incoraggiano e lo spaventano, i libri letti, prima compagni di vita, ora li giudica inutili, si lascia andare al desiderio per ripiegare subito nella paura e nella disillusione. George rifiuta il pianto e compiange in silenzio la morte di Jim e quella imminente dell’amica nemica Doris perché lo mantengono dolorosamente ancorato alla vita.

Con l’altra amica, Charley, l’unica donna della sua vita, che lo capisce e c’è sempre stata con lui e Jim, la sola che lo unisce nell’amore per l’Inghilterra da cui entrambi provengono, mantiene un’amicizia trascurata ma indispensabile che gli permette appunto di conservarsi sincero.

E poi c’è l’imprevisto che arriva con la notte: Kenny Potter, uno dei suoi studenti, è la materializzazione dei suoi desideri, perché il dolore non ha spento le sue pulsioni, corpo e anima non sono più due identità diverse. Un incontro pieno di sottigliezze, stati d’animo che mutano, pensieri sotterranei. L’incontro li condurrà in una folle corsa sulla spiaggia e poi tra le onde dell’oceano e poi fino a casa del professore in una pagina di grande letteratura. Basta poco per non essere più soli: “se non mangiassimo mai soli, soffriremmo di solitudine?”.

L’autore crea complicità con il lettore intercalando a volte alla terza persona la seconda e la prima plurale e rivolgendosi a Jim direttamente.

Oltre alla solitudine, l’argomento costante del libro è la morte: quella di Jim, quella che ipotizza per sé George (un’ipotesi che facciamo tutti, un gioco in cui ci chiediamo come sopravvivere al dolore) e quella sullo sfondo che sta vivendo l’America a causa della guerra dei missili a Cuba.

Alla fine il libro lascia una malinconia che sembra un saluto di addio alla vita che Isherwood forse sentiva non così lontano.

 
Genere Narrativa

 Anno di pubblicazione 1964


lunedì 7 aprile 2025

DOVE NON MI HAI PORTATA

 




Dove non mi hai mai portata - Calandrone Maria Grazia -

Recensione a cura di Miriam Donati

 

Non si può che partire dallo stile con questo libro: è poetico e impatta emotivamente con il lettore regalandogli una storia intensa e coinvolgente.

Il linguaggio è ricercato, a volte aulico, con gli a capo e le spaziature inconsuete, con alcune frasi in dialetto e preghiere in latino; è certamente impegnativo nonostante la fluidità, ma commuove toccando le corde più profonde.

I protagonisti e gli eventi sono ritratti in modo così minuzioso da sembrare reali come si prefigge l’autrice di render reale la propria madre nell’incipit. E riesce in questa impresa: Lucia, man mano si va avanti nella lettura diventa davvero concreta, vera, tangibile, l’autrice riesce a ridare dignità anche al suo gesto più estremo, dà un senso anche al dolore, spogliando la morte dalla violenza e lasciando solo l’amore. Ricostruisce in un vero e proprio reportage poetico la vita di Lucia, la giovane madre che l’ha data alla luce e l’ha poi abbandonata prima di togliersi la vita e di Giuseppe di cui si è innamorata. Ricrea una madre di cui non ha alcun ricordo e lo fa scavando nei luoghi che l’hanno vista crescere, soffrire e anche innamorarsi alla fine, lo fa attraverso poche fotografie, lettere pubbliche e private, documenti d’archivio, carte d’identità, testimonianze, racconti, cartelle cliniche. Tramite i dati satellitari mappa gli spostamenti e gli itinerari percorsi immaginando il suo andirivieni psicologico, i suoi pensieri, le sue emozioni.

Lucia fugge da un marito violento che era stata costretta a sposare e dalle umiliazioni a cui era stata sottoposta; il suo tentativo di rifarsi una vita con Giuseppe e la nascita di Maria Grazia non fermano la denuncia per adulterio e abbandono del tetto coniugale e si creano quindi le condizioni per la tragica decisione presa da entrambi di lasciarsi cadere nel Tevere dopo aver posato la figlia su un prato a Villa Borghese e spedito una lettera a l’Unità in cui è spiegato il loro gesto.

Il romanzo è insieme un atto d’amore, un’indagine accurata e ricostruzione di una vita, una lente d’ingrandimento sulla storia d’Italia perché questa storia intima e personale procede in un contesto di morale e legislazione ancora patriarcali ed è attraversata dagli eventi che non rimangono solo sullo sfondo, ma  che interferiscono nella vita di Lucia e Giuseppe cambiandone il destino: l’Italia rurale del paesino molisano, le guerre d’Africa, Milano e la sua periferia negli anni del boom economico con l’emigrazione dal Sud al Nord. 

Con coraggio una figlia abbandonata prende per mano una madre ragazzina, abbandonata dalla propria famiglia, vittima dei pregiudizi di una società ostile, ottusa, ipocrita che sa solo condannare, colpevole di aver cercato di vivere degnamente e la porta nel suo presente confermandole che il futuro che aveva sognato per lei si è avverato. Scrivendo di lei le ha restituito la comprensione e il commiato che non ha avuto in vita e l’ha fatta rivivere nella memoria di chi legge lasciando quindi una traccia indelebile.

 

Genere: narrativa

Anno di pubblicazione 2022


giovedì 20 marzo 2025

RISPLENDO NON BRUCIO

 




Risplendo non brucio - Ilaria Tuti

recensione di Miriam Donati

 

Trovo particolarmente interessante che sempre più spesso romanzi etichettati come thriller o crime si occupino di episodi storici o dimenticati o conosciuti ma non abbastanza indagati o ancora di luoghi simbolo trascurati. Sono pertanto classificati come gialli storici.

Non mi piacciono né le etichette, né le classificazioni perché ingabbiano e semplificano dove invece di solito convivono complessità e stratificazione, realtà e fantasia, frammentarietà e risoluzione.

Ilaria Tuti parte da Trieste, zona di confine dove confine indica mondi contrapposti e dalla Risiera di San Sabba, ex opificio trasformato in lager di sterminio nazista, luogo reale e nello stesso tempo coagulo di umanità vilipesa, cancellata, ma le cui urla continuano a risuonare tra le sue mura. “La fabbrica di riso ci ha ingannato/invece di sfamarci ci ha mangiato” citano i versi del poeta triestino Roberto Dedenario che aprono uno dei capitoli del libro a indicare che la cenere che si disperde nell’aria insieme alla neve è impregnata di resti umani.

L’autrice friulana utilizza un’indagine per la ricerca di un “mostro” che azzanna fanciulle per raccontarci i mostri protagonisti dell’inverno 1944. Momento cruciale della Seconda Guerra Mondiale dove il gelo, la neve, il ghiaccio e il vento non rappresentano solo il clima, ma sono simboli delle vite marchiate da dolore e sofferenza. Racconta attraverso immagini e connotati minimi ma efficaci le condizioni disumane dei prigionieri, soprattutto politici, che, costretti a rinunciare alla dignità e all’amor proprio per sopravvivere si consegnano a loro volta al male.

Due storie parallele nel libro si alternano raccontando di un padre e di una figlia, lontani nello spazio, ma vicini per indole, affetto e obbiettivi. L’autrice scava nel loro amore, in quanto li accomuna e in quanto li divide, nelle indagini che svolgono per risolvere due casi misteriosi, nella loro lotta per sopravvivere, ma, soprattutto, per restare umani.

Da una parte abbiamo Johann Maria Adami, traumatologo, biologo e medico forense, internato a Dachau per le proprie posizioni antinaziste, che viene trasferito su espresso ordine di Hitler e per mezzo di Veil Seidel, un ufficiale ex suo allievo, divenuto SS, al Castello di Kransberg, in Assia, dove il dittatore risiede nel bunker dopo l’attentato alla sua vita. L’ordine è di scoprire se la morte di un ufficiale precipitato da una torre del castello sia da imputarsi a suicidio come sembra in prima istanza o a omicidio.

Dall’altra parte, Ada, figlia di Johann, medico anche lei, si trova a indagare sull’aggressione subita dall’amica Margherita, colpita da numerose ferite e morsi umani, perché il padre, esponente fascista della città e nobile non vuole sporgere denuncia per non intaccare la propria reputazione. Ada è profondamente risentita con suo padre Johan perché per la sua opposizione al nazismo è stato internato ed è stato la causa involontaria della morte della madre durante il suo arresto; si è ritrovata pertanto sola con un figlio nato dopo che anche del marito, dopo l’armistizio dell’8 settembre, non ha più notizie.

Il corpo dilaniato di Margherita è stato trovato nella neve nei pressi della Risiera di San Sabba e Ada ignora minacce e pericoli alla ricerca del colpevole facendosi aiutare da un ufficiale medico tedesco, Erik Lange che lavora appunto alla Risiera e che sembra, proprio in funzione della propria professione, aver mantenuto una certa umanità.

Una corsa contro il tempo per entrambi, una partita duplice, febbrile, convulsa che porta il lettore a vivere sia l’angoscia di Johann per essere agnello in mezzo ai lupi tra le nevi dell’Assia, sia il terrore di Ada, costretta a camminare rasente i muri per rendersi invisibile a Trieste con il vento ghiacciato e il cielo nero che “sembrano sottolineare il carico di dolore che la terra assorbe”.

Le indagini di padre e figlia sono rese più complesse perché non possono fare domande dirette, non hanno strumenti adeguati ad analizzare i reperti e le scene dei crimini sono state alterate. I pochi indizi trovati non sanno se lasciati ad arte o contraffatti e devono evitare di deludere chi comanda perché basta una risposta sgradita per causare una morte o una vendetta trasversale.

Johann però trova degli alleati insperati e Ada si immedesima nell’agire scientifico del padre riproducendone gli esperimenti per arrivare a una soluzione.

I temi affrontati sono molteplici: la forza interiore che si oppone alla tirannia, l’amore padre-figlia che guida i protagonisti per tutto il libro, l’orrore della guerra, il valore della conoscenza e della giustizia.

Uno dei punti di forza del libro è l’equilibrio tra i fatti storici e la ricostruzione narrativa che coinvolgono anche emozionalmente il lettore. L’ambientazione e la ricostruzione storica impattano in modo vivido nella la narrazione con le indagini che hanno un ritmo serrato e alternano descrizioni evocative e lampi di pura tensione. La ricerca storica fatta dall’autrice e trasportata sulla pagina è senz’altro apprezzabile perché unisce lo scenario complesso del confine istriano all’orrore della Risiera, il male assoluto dell’occupazione tedesca ai meriti della Resistenza, fino alle atrocità dei partigiani titini.

I personaggi, anche i secondari, sono molto accurati con il proprio bagaglio emotivo e caratteriale. Alcuni sono realmente esistiti e i loro comportamenti anche solo accennati sono disumani.

La scrittura diretta, cruda, suscita emozioni contrastanti richiamando immagini potenti e ponendo il lettore di fronte all’importanza di non dimenticare.

La soluzione dei due casi coincide nella parte finale con la spiegazione del titolo che è un invito-testamento a vivere senza compromessi e senza rinunciare alla propria integrità morale.

Nel finale, allo scioglimento dell’enigma principale, purtroppo mancano alcune spiegazioni, serviva qualche chiarimento in più per non lasciare dubbi (come fa il nonno a raggiungere il nipote per esempio) e il tutto è troppo frettoloso. Peccato perché per il resto il romanzo è impeccabile.

 

Genere: Thriller storico

Anno di pubblicazione: 2024

 


giovedì 6 marzo 2025

BAMBINO





 

Bambino - Marco Balzano -

recensione di Miriam Donati

 

Marco Balzano ha dichiarato di aver voluto scrivere questo romanzo partendo da un luogo e da un ruolo di protagonista rovesciato: non più vittima, ma carnefice.

Il luogo è Trieste. Terra di confine, crogiuolo di lingue, etnie, religioni, nodo nevralgico di culture, commerci, miscuglio di odi e amori vecchi e nuovi, principale porto dell’impero austroungarico imbevuto di spirito mitteleuropeo. Confine caldo negli anni del fascismo e della guerra dove furono annunciate le leggi razziali e dove aveva sede la Risiera di San Sabba, città contesa, scenario delle atrocità prima dei fascisti, poi dei nazisti e infine dei titini. E a Trieste, anche lei protagonista di questo libro, Bambino, il personaggio principale riserva un amore incondizionato.

Mattia Gregori nasce a Trieste nel 1900. Secondogenito di un orologiaio, fin da piccolo ha un carattere scontroso e ribelle, è irrequieto e rissoso. Alla vigilia della prima guerra mondiale, Adriano, il primogenito, emigra in America e successivamente anche il migliore amico, Ernesto, abbandona Mattia. Sul letto di morte la madre Tella gli confessa che la sua vera madre è una sconosciuta con cui il padre ha avuto una relazione. Da ferita insanabile, la rivelazione diventa per lui un’ossessione devastante. Nel desiderio spasmodico di rintracciare chi sia la madre diventa fascista sperando di approfittare di una rete di relazioni che lo aiuti a scoprirne finalmente l’identità che il padre non vuole rivelare. Nemmeno una vecchia fotografia conservata dal padre gli permette di individuarla e questo gli crea oltre che delusione una rabbia che sfocia in violenza verbale e fisica sugli innocenti che incontra sul suo percorso: li deruba, li picchia, li umilia. Preferisce farsi temere come capomanipolo dagli squadristi che comanda e di cui non diventa amico che farsi benvolere. Nonostante il soprannome “Bambino” che gli è attribuito per il volto glabro, ostenta una ferocia e una brutalità che nasconde inquietudine, fragilità e bisogno d’amore. Un adulto che non riesce a uscire dalla condizione di bambino, come si definisce lui stesso attraverso la lingua tagliente di Balzano mentre combatte in Albania: “Ero davvero un bambino di quarant’anni, non abbastanza vecchio per evitare il fronte, ma non così giovane per costruirmi una famiglia”.

Sono queste espressioni sincere che fanno sì che il lettore si affezioni nonostante tutto a un protagonista così odioso che, in una lettera all’amico Ernesto che è diventato partigiano, confessa: “…non ho mai avuto degli ideali, tu invece sì. Chissà perché alcuni li hanno, altri no”.

Accanto a comportamenti violenti, atroci e brutali si accompagnano i pensieri per la madre, per la matrigna Tella, per una prostituta che rivelano un acuto desiderio di amore e un candore inaspettati. Una purezza legata anche al padre Nanni, certo che il figlio si possa alla fine riparare come gli orologi che lui aggiusta. Non approva le scelte del figlio, sta dall’altra parte, i fascisti gli hanno devastato il negozio, eppure non chiude mai la sua porta, non lo esclude, non lo rinnega, lo protegge sempre. Ha cercato con pazienza e precisione di insegnargli il proprio mestiere senza riuscirci e ogni volta che Mattia torna, lo accoglie. 

Passano gli anni e Mattia parte volontario per l’Albania lasciando il suo passato di squadrista e conosce una nuova realtà fatta di freddo, gelo, fame, stenti e ordini inutili, odiando comandanti e generali, perfino lo stesso Duce e, rientrato in Italia, per sopravvivere, si dedica al mercato nero sfruttando ancora una volta i più deboli. Dopo l’armistizio con l’occupazione tedesca di Trieste diventa delatore per conto dei nazisti consegnando ebrei, comunisti e oppositori. Partecipa a violenze, spedizioni punitive in Slovenia, esecuzioni davanti alle foibe più per inclinazione naturale alla violenza che per credo. Quando nel 1945 arrivano le truppe di Tito a liberare la città viene arrestato e inviato al capo di Borovnica dove, aggiustando un orologio del comandante, riesce a salvarsi da morte certa per fame e stenti, ma ancora una volta fa il delatore per i servizi segreti jugoslavi. Si rifugia con i documenti falsi procuratigli dal padre in una malga veneta dove lavora per mesi iniziando un percorso di rinascita. Al rientro a Trieste è però è catturato dai partigiani sloveni. Ormai ha capito che la violenza non porta alla giustizia e di non aver diritto al perdono.

Balzano ha creato un personaggio duro, complesso nella sua ferocia, lontano dagli stereotipi, con un’inquietudine profonda che non trova mai vero sfogo nemmeno nelle gesta più efferate, in una discesa all’inferno sempre più profonda: “Ho ucciso e fatto uccidere. Ho sempre cercato di stare dalla parte del più forte e mi sono sempre ritrovato dalla parte sbagliata.”

Con una scrittura affilata, trascinante, serrata, che alterna descrizioni e riflessioni questo romanzo storico e di formazione recupera il tema civile della memoria e indaga il rapporto tra individuo e collettività, le scelte personali e i rivolgimenti della Storia dove torti e ragioni si mischiano, ritrae uno squadrista della prima ora che si nasconde nel branco per aggredire e scansare le fatiche del lavoro e della guerra prendendo volutamente la strada della violenza.

Mattia nell’incipit dichiara che la sua infanzia è stata noiosa e interminabile, l’esatto contrario di come dovrebbe essere. Forse tutto è cominciato da lì.

 

Genere: narrativa

 Anno di pubblicazione 2024