martedì 6 maggio 2025

V 13

 




V13 - Emmanuel Carrère

 Recensione di Miriam Donati

 

Carrère è sempre stato affascinato dai meccanismi che muovono la mente umana. Tenace e puntiglioso osservatore di esistenze eccezionali da Limonov a L’avversario (in quest’ultimo indagava una vita di menzogne che portava allo sterminio della propria famiglia), fino a questo libro in cui si occupa degli attentati terroristici di venerdì 13 novembre 2015 (da qui il titolo) al Teatro Bataclan, allo Stade de France e a bistrot e ristoranti di Parigi che hanno causato la morte di centrotrenta vittime e il ferimento di altre trecentocinquanta.

Ogni mattina, a partire dall’8 settembre 2021, per dieci mesi, lo scrittore si è seduto nell’aula del processo intentato contro l’unico superstite dei terroristi e gli altri complici o fiancheggiatori e ha ascoltato il resoconto implacabile di quanto accaduto, interessato alle esperienze di morte e di vita e raccontandole sui principali quotidiani europei con una serie di articoli che sono diventati, ampliati, questo libro.

L’autore porta con sé il lettore in un percorso impietoso con rispetto, umanità e pudore dilatando i punti di vista senza dare giudizi e affrontando una realtà sfuggente e inspiegabile.

Il racconto tragico delle vittime domina la prima metà del libro con testimonianze che evocano immagini terribili e tanta disperazione per l’orrore fisico subito e il senso di colpa dei sopravvissuti per chi avrebbero potuto soccorrere o per essere stati costretti a una scelta. Una tragedia collettiva che Carrère trasforma in una unicità per ogni descrizione frammentaria e organica allo stesso tempo che fa. Una trafittura per il lettore. Carrère è soprattutto interessato alla reazione delle vittime, quasi nessuna di loro chiede vendetta, vogliono solo ascolto e un processo equo con pene commisurate per gli imputati.

Lo scrittore non cade nella retorica o nella morbosità, cerca nell’inferno della morte una speranza di vita individuandola in due testimoni: Nadia Mondeguer e Georges Salines, genitori di due giovani vittime, che non rinunciano alla propria umanità e non si lasciano sommergere dal pur comprensibile senso di vendetta rappresentato da un altro genitore Patrick Jardin. Carrère cerca un senso alla logica comportamentale degli imputati e lo cerca insieme a Nadia, nata a Il Cairo e che va spesso a trovare durante il processo, ma non lo trova e non lo troverà nemmeno alla fine. Cita Spinoza “Non deridere, non compiangere, non condannare, comprendere soltanto.”

Esemplare è il senso di impotenza delle vittime: la mancanza di reazione o la volontà di reagire alla violenza subita, in parte dovuta all’evento improvviso, ma per gran parte dovuta allo smarrimento generale, all’incapacità di leggere gli eventi e a una perdita di radicamento. Impotenza assimilabile a quella dell’intero Occidente incapace di controllare effettivamente il proprio territorio, in questo caso lasciando fuggire uno dei terroristi a Bruxelles. La paura degli attentati ridotta alla sola chiusura con muri senza fare veramente i conti con la propria identità persa quasi del tutto. Da un lato chi si sente martoriato e in guerra con gli occidentali, dall’altro chi spesso è inconsapevole delle conseguenze dell’intervento militare dei propri governi in Iraq o in Siria a cui gli imputati fanno spesso riferimento per giustificare i loro atti, ripetendo la propaganda dell’Isis.

Carrère racconta nella seconda parte del libro gli imputati, non geni del male, ma personaggi quasi banali e durante le udienze è analizzata la preparazione degli attentati con evidenti “buchi” fatti dalla polizia francese; i tre principali carnefici non ci sono perché si sono fatti saltare negli attentati. Degli altri due: Salah Abdeslam e Mohammad Abrini, due amici, uno fugge prima dell’attentato e l’altro si sfila la cintura esplosiva e fugge a sua volta. Il dilemma dei giudici è capire perché abbiano deciso di non sacrificarsi con gli altri assassini. Gli altri imputati sono solo personaggi di secondo piano. Durante il processo alternano silenzio o rivendicazione. Ed è attraverso altre testimonianze che emerge il loro pensiero. Quella della giudice istruttrice belga che tramite il racconto del quartiere Molenbeek di Bruxelles chiarisce come l’Islam radicale abbia attecchito in Belgio e quella dell’esperto di Islam, Hugo Micheron, che fa emergere come l’integrazione e la società multiculturale post colonialista che spesso ignora le differenze profonde sulle quali sarebbe necessario confrontarsi, abbia fallito. Inoltre Micheron vede negli imputati persone rifiutate, umiliate, emarginate da un sistema socio-economico spietato, senza altra scelta che il crimine o una fede deviata, ma loro non si vedono affatto come vittime o perdenti. Sono piuttosto dilettanti che hanno abbracciato il fondamentalismo per frustrazione verso una società in cui non sono nulla, utili idioti sacrificabili dall’Isis. Lo sguardo di Carrère sul processo fa emergere la complessità di questi problemi, cerca le risposte tra testimonianze e deposizioni, tra l’orrore del massacro e la pietà espressa anche tra genitori delle vittime e genitori dei carnefici. George Salines, padre di una vittima, scriverà un libro insieme al padre di uno dei terroristi che lo ha cercato per un confronto, destando ovviamente scalpore. Carrère rende palpabile il concetto che la politica gestisce purtroppo il problema con approssimazione, se non superficialità e arroganza.

Si passa quindi con la terza parte dalla teoria alla prassi giuridica che deve valutare i comportamenti, le giustificazioni, le colpe, arrivare al termine della notte. Con le arringhe degli avvocati dell’accusa e della difesa, la Corte, il verdetto, la giustizia stessa arriva a essere giudicata. Il processo è stato rigoroso, ma molti nodi restano aperti, per esempio: la condanna all’ergastolo ostativo senza possibilità né di sconti, né di licenze per Salah Abdeslam è una condanna esemplare, ma se fossero stati sotto processo i veri attentatori e non chi è fuggito senza commettere violenza, l’imputato avrebbe avuto una pena più lieve.

La sera della sentenza vede lo scrittore con gli altri giornalisti e gli altri presenti al processo, di cui qualcuno è diventato suo amico, nel solito bistrot frequentato anche nei mesi precedenti e tutti sentono un senso di vuoto; anche il lettore partecipa e ha la sensazione che il processo sia stato insensato e senza scopo. Se gli attentatori sono morti, restano solo le lacrime di chi è rimasto vivo come Nadia che conclude il libro. Nel 2018 torna a Il Cairo dove era stata con la figlia Lamia prima dell’attentato. Nello stesso luogo dove si erano fermate a guardare il tramonto, racconta in arabo a un poliziotto gli attentati e il processo. La solidarietà di quest’uomo per cui i veri martiri della vicenda non sono i terroristi che si attribuivano quel titolo, ma le vittime come la figlia di Nadia, è per Carrère un “raddrizzarsi del mondo”.

In un mondo, così pieno di immagini e di social, approfondire, conoscere e capire un fenomeno talmente complesso e devastante qual è il terrorismo dovrebbe essere facile e invece si fa molta fatica a comprendere e forse restano solo i libri come questo alla fine: una narrazione senza retorica per il lettore che si angoscia di fronte a eventi che lo allontanano sempre di più dalla propria umanità.

 

Genere: saggio/Narrativa

Anno di pubblicazione 2023


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