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venerdì 12 settembre 2025

L'ANNIVERSARIO

 



L'anniversario - Andrea Bajani -

recensione a cura di Carmen Nolasco


Ho letto in soli due giorni “L'anniversario” di Bajani e lo recensisco di getto, per non perdere l'eco che ha prodotto dentro di me, e quella propaggine depressiva che ancora mi aleggia intorno.

Mi ha colpito subito la scrittura accurata e l'incipit intrigante, quell'ultimo incontro del protagonista "io narrante" con i suoi genitori, con la madre che lo insegue per le scale apprensiva, e poi quella frase, che resta impressa nel cuore del lettore: da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita.

È una partenza che crea subito aspettativa sulla storia, mentre l'estrema eleganza stilistica e l’innegabile maestria lessicale catturano immediatamente. La narrazione però - quella di una famiglia disfunzionale, con padre autoritario, madre succube e figli incompresi - continuerà monocorde fino alla fine.

Sembra che l'autore, pur abile nel raccontare uno squilibrio che, a dire il vero, era abbastanza ricorrente nelle famiglie italiane di quegli anni, badi più alla precisione stilistica che all'accuratezza psicologica. La scrittura appare così volutamente fredda, chirurgica, priva di emozioni e di calore umano. Piatta. Se proprio questa è la particolarità del libro, l'unicità che lo ha portato alla ribalta, resta però difficile superare la sensazione claustrofobica che suscita.

Non sembra un romanzo - ma lo è davvero? - quanto piuttosto un resoconto, una sorta di cronistoria giornalistica che ricostruisce i fatti mantenendo un rigido distacco.

L'autore ha creato uno sguardo osservativo sulla storia, trattandola come l'analisi di un "sistema-famiglia" da cui il narratore è uscito. L'elemento autobiografico tuttavia, appare così indiscusso e potente da far sembrare questa storia più una psicoterapia del ricordo o una vendetta personale. Proprio qui emerge quell'assenza di compassione che sarebbe naturale in un figlio, insieme alla presenza di un chiaro danno psicologico subito, che si consolida proprio in questa incapacità di provare comprensione.

La vecchiaia, nel libro di Bajani, emerge alla fine come il grande equalizzatore che dovrebbe condurre naturalmente alla compassione e al perdono. Il padre dominante e la madre succube si troveranno inevitabilmente vulnerabili, ridotti a quella fragilità umana universale che dovrebbe toccare il cuore di un figlio. Eppure il figlio si sottrae, non per vendetta, quella arriva attraverso la stesura del romanzo stesso come terapia - vendicativa - ma per una più tragica incapacità: il danno subito è così profondo da impedirgli di accogliere persino le miserie della vecchiaia. Il no-contact diventa così non un atto di forza, ma la manifestazione di un'impotenza emotiva, l'incapacità di provare quella pietà che il disarmo dei propri genitori dovrebbe spontaneamente suscitare. È il paradosso più amaro: quando finalmente i carnefici sono presumibilmente innocui, il figlio scopre di essere emotivamente incapace e dunque cieco proprio verso quella empatia che potrebbe guarirlo.

Eppure, proprio attraverso questo distacco emotivo e quest'assenza di perdono, Bajani riesce a farci vivere un dolore soffocato e intenso - un dolore che necessiterà di anni di terapia evidentemente mai risolutivi.


genere: narrativa 

anno di pubblicazione: 2025


domenica 31 agosto 2025

IL RITRATTO

 



Il ritratto - Ilaria Bernardini - 

recensione a cura di Carmen Nolasco


Valeria Costas è una scrittrice di successo. Da oltre venticinque anni è l'amante di Martin Aclà, noto imprenditore sposato. L'incipit del libro svela subito la questione: Martin e Valeria erano amanti. Lo erano stati per gran parte della loro vita. Questo inizio, che porta al cuore della storia senza preamboli, è brutale e sembra la promessa di un racconto dozzinale. E invece…

Valeria vive a Parigi, Martin a Londra con moglie e figli. Quando Valeria scopre che il suo amante è in coma in seguito a un ictus, riesce a insinuarsi nella casa di lui con la scusa di farsi fare un ritratto, per la quarta di copertina del suo ultimo libro, dalla moglie Isla, che è una ritrattista molto famosa. All'inizio disturba la questione che siano tutte figure di successo, tutti vip, tutti conosciuti e osannati da stampa e critica: Valeria, Isla, Martin. Sembra delinearsi una narrazione mainstream: lui, la moglie e l'amante, belli ricchi e famosi. E invece sappiamo che un romanzo è davvero speciale non per quello che racconta, bensì per come lo racconta: il ritmo, le pause, le rivelazioni graduali, l'intensità e la capacità introspettiva. E tutti questi talenti sono presenti nel romanzo di Ilaria Bernardini, distribuiti in modo articolato e complesso, tale che inizialmente l'autrice dà l’idea di procedere incerta, senza un canovaccio preciso. Personaggi e situazioni appaiono in un primo momento poco definiti, come se la Bernardini si lasciasse guidare dalla narrazione stessa. È proprio questa incertezza iniziale a rendere più potente la presa di coscienza dell’intreccio che avviene a metà lettura: il lettore scopre di essere imprigionato in un groviglio di emozioni, nella sapiente trama del romanzo che lo trattiene dentro la sua ragnatela collosa.

Ilaria Bernardini eccelle nel dosare le rivelazioni: come tessere di un puzzle, vanno a completare, in questa fase centrale, la caratterizzazione dei personaggi facendo maturare nel lettore una comprensione via via sempre più profonda, non solo degli eventi che si dipanano nel testo, ma dell'anima stessa di ciascun protagonista, con quella forza e complessità che rendono un romanzo memorabile.

Poi, però, ecco la curva discendente. L’andamento prima in salita, che a metà trasporta al clou della narrazione con un impatto emotivo altissimo, discende trascinando chi legge in un baratro di sconforto, tra malattie, pensieri suicidari, psicopatologie e drammi da cui non si salva nessuno.

L'intensità, prima della conclusione, guida positivamente la storia: le parole creano immagini, scavano dentro il lettore. Non sono pietre affilate né fuoco che brucia, sono dense e cremose come devono essere le parole giuste: Vide quella stessa scena da un satellite molto lontano... dal satellite scattò una foto, la mise in un cassetto. Ed ecco che per magia il lettore vede tutto, di colpo, dalla prospettiva descritta: tutto piccolo, tutto dall'alto. Ma che brava! È un passaggio di notevole efficacia. Il ritmo diventa così intenso che la lettura assurge a valore prioritario nella quotidianità del lettore: bisogna continuare a leggere per sapere come andrà a finire. Dunque, promosso a pieni voti?

Promosso, senza dubbio. Ma non a pieni voti. Sul finire della storia ci si accorge delle ridondanze, come la rievocazione sempre più esagerata di Sybilla, la sorellina morta di cancro a dodici anni. Poi alcune inverosimiglianze: in un passaggio in cui Valeria ricorda la sorellina, a un certo punto Sybilla, nove anni, dice: sono più coraggiosa io! e Valeria, sette anni, risponde: Col cazzo che lo sei. È credibile l’espressione per una bambina di soli sette anni? Oppure, quando leggiamo: ‘Vi amo, bambine', ripeteva mentre camminava verso casa. 'Anche noi ti amiamo' rispondevano loro’: in un dialogo realistico, possono i personaggi rispondere perfettamente all'unisono?

Tra le ridondanze varie che disturbano la lettura, si nota la ricorrenza esasperata del verbo scomparire che all'inizio intriga e affascina, ma poi l’abuso lo rende estremamente fastidioso. La ridondanza dei pensieri suicidari di molti personaggi e il tema della perdita e della morte avvolgono in modo quasi claustrofobico l'umore del lettore che non intravede una punta di luce. Inoltre, se l’intento dell’autrice è stato quello di non farci amare Valeria come donna in quanto cupa, egocentrica e monocorde, c’è riuscita perfettamente.

Altra ridondanza è insita nella descrizione di Valeria come scrittrice: lo scrittore protagonista del romanzo è un tema abusato in letteratura e in questo caso con troppa dovizia di particolari e resoconti sulle sue abilità e abitudini.

Ci sono piccole sbavature lessicali come l’uso errato del congiuntivo che non si capisce se volute (il personaggio di colpo diventa sgrammaticato?) o capitate, come: "Spero che tu e tua madre stiate bene e che il balcone “fosse” bello come sembrava nelle fotografie". O ripetizioni come: "Vennero accolti dalla figlia della proprietaria, che aveva capelli molto lunghi e pareva una divinità egizia. Era più bella di profilo, cosa che avrebbe funzionato alla perfezione in un ritratto egizio".

Ancora, spiegoncini superflui tipo: A volte erano così in ritardo per la scuola che dovevano correre “per coprire la distanza nel minor tempo possibile".

Infine, se la storia si fosse conclusa senza l’Epilogo, avrebbe lasciato il lettore con quell’incertezza di un finale aperto e con la suggestione meravigliosa della chiusa: E con i polmoni aperti e con le bocche spalancate cantarono (tutti i personaggi di tutte le storie scritte e mai scritte di Valeria) a squarciagola, forti come i tuoni, potenti come l’amore.

Invece è come se un editor abbia chiesto all’autrice un finale diverso, rivelatore, e così lei lo abbia scritto e inserito alla fine, rendendo la storia inverosimile, e il finale stesso un’appendice posticcia con ritmo e stile differenti.

In sintesi, lettura consigliata? Sì. Un punto di vista diverso sul tradimento.


genere: narrativa 

anno di pubblicazione: 2020

 


martedì 29 aprile 2025

MENO DI ZERO

 






Meno di zero - Bret Easton Ellis -

recensione a cura di Carmen Nolasco


Bret Easton Ellis aveva appena vent'anni quando, nel 1985, pubblicò il suo primo romanzo "Meno di zero" ("Less Than Zero"). Concepito originariamente come tesi finale per un corso universitario di scrittura creativa, il libro rivela immediatamente il talento e l'audacia narrativa dell'autore. La sua scrittura, sorprendentemente matura, dà l'impressione di uno scrittore esperto che si cimenti in un romanzo di formazione. Eppure, tra le righe, emerge tutta l'inquietudine dell'adolescenza che si trasforma e si spegne in una narrazione che mostra, senza bisogno di spiegazioni, il puro nichilismo. In questo senso, il parallelo con "L'Ospite inquietante" di Umberto Galimberti appare inevitabile, entrambi diversamente testimoni del disincanto di una generazione alla deriva.

Se esiste uno scrittore che incarna il principio secondo cui la scrittura non ha regole, questi è certamente Bret Easton Ellis. "Meno di zero" è un romanzo privo di una trama convenzionale, dove apparentemente non accade nulla di rilevante, eppure ogni singola riga risulta essenziale. Ellis non narra grandi eventi, ma si concentra sulle piccole azioni quotidiane e sui dialoghi tra gli amici che, nel fluire dei giorni, riescono a dipingere con ferocia e brutalità disarmante il sordo dolore di un adolescente. Un dolore che il protagonista riesce fugacemente a intravedere nella vacuità della propria esistenza e in quella dei suoi coetanei.

La narrazione, che racconta le vacanze di Natale del giovane Clay, durante le quali torna alla natia Los Angeles, si sviluppa senza mai suscitare la classica domanda: "E poi?". Questo non significa che l'assenza di suspense non riesca a mantenere il lettore incollato alle pagine. Al contrario, chi legge viene assorbito dal racconto, immerso nelle parole e svuotato a sua volta, e lasciato con un profondo senso di angoscia esistenziale. E se il lettore è un genitore, con un'inquietante domanda. Tra le pagine emerge infatti un'accusa spietata verso una generazione di genitori assenti, concentrati esclusivamente sulle proprie vite.

L'indifferenza nelle relazioni, la superficialità dei rapporti, la prosperità economica, e l'incapacità di assumere responsabilità (emblematico lo psicologo di Clay, egli stesso parte di questo mondo perduto) sono i tratti distintivi della società americana rappresentata: l’ambiente opulento e superficiale degli Studios cinematografici. In questo contesto emerge, senza clamori espliciti, il dolore di Clay, protagonista del romanzo, che si manifesta nel suo ripetuto e struggente "Sparire qui" e nel suo pianto apparentemente immotivato.

Ellis dipinge un universo popolato da ragazzi biondissimi, abbronzatissimi, bellissimi e terribilmente vuoti, incapaci di provare il minimo sentimento empatico. La patinata Los Angeles che fa da sfondo alla narrazione diventa simbolo dell'abbondanza: una città abitata da persone che possiedono tutto e non hanno più nulla da desiderare.

Questo romanzo rappresenta il primo grande esempio della genialità di Ellis. Se in opere successive, come "American Psycho", affinerà il suo stile provocatorio, qui dimostra già una sorprendente capacità di catturare l’immoralità e la devastazione di un’adolescenza annichilita. La sua scrittura è penetrata in me come un punteruolo, e mi ha catturato soprattutto nell'ultima pagina, grazie a una chiusura impeccabile e – inaspettatamente − profonda, lasciandomi con l'impossibilità di liberarmi da due parole contrastanti, ma perfettamente appropriate: terribile e capolavoro.


genere: narrativa

anno di pubblicazione: 1985


venerdì 18 aprile 2025

NON DICO ADDIO

 




Non dico addio - Han Kang -

recensione a cura di Carmen Nolasco


Avete presente quelle letture che sembrano avvolgervi completamente, facendovi dimenticare il posto in cui vi trovate? Non dico addio di Han Kang fa proprio questo. È un romanzo che mi ha fatto provare un freddo intenso, tanto che mi rifugiavo sotto un plaid caldo e morbido ogni volta che riprendevo la lettura. La scrittura di Kang possiede, infatti, un potere immersivo davvero straordinario, che raramente ho sperimentato in altre opere letterarie.

Ciò che colpisce di questo romanzo è la prosa lirica e precisa — a tratti spietata — e la meticolosa scelta delle parole, unite a un perfetto bilanciamento musicale tra le frasi:

“Quell'armonia sorprendentemente soave, ma nello stesso tempo lievemente dissonante, che sembrava doversi interrompere da un momento all'altro, aveva continuato a srotolarsi nell'aria."

Un elogio particolare va a Lia Iovenitti per la sua magistrale traduzione italiana. È riuscita a preservare un testo denso di immaginazione e poesia, trasmettendo intatta, suppongo, la magia dell'originale coreano.

Ogni parola di Kang è calibrata per trascinarti nel gelido mondo di Gyeong-ha, tra fiocchi di neve e "istanti congelati in volo che brillano come cristalli". Quanto freddo! Un freddo che permea ogni pagina fino alla conclusione. Lirico, duro, brutale. Squisitamente poetico. Quando ho chiuso il libro sull'ultima pagina, la mia pelle era gelida come quella della protagonista, e anche il mio cuore continuava a tremare.

Va detto, con onestà, che non è stata una lettura sempre scorrevole. In alcuni passaggi il ritmo rallenta, l'incedere diventa contemplativo, quasi statico. L'inquietudine che pervade la narrazione sembra talvolta fine a sé stessa, raramente proiettata verso il futuro con la domanda: "E poi? Che accadrà dopo?"

L'epilogo lascia un senso di incompiutezza che sconfina nell'amaro. È drammatico, un sogno lucido che costringe a riflettere e risolve la lettura in un momento di consapevolezza: "Oh! Era questo, dunque!":

"Ogni fiocco di neve sembrava illuminato dall'interno da un minuscolo tizzone ardente... poi... l'oscurità ha cancellato di nuovo ogni cosa".

Ho lasciato decantare la storia prima di scrivere questa recensione, pensando inizialmente che il romanzo non mi fosse piaciuto. Invece, mi ha profondamente colpita, poiché a distanza di settimane continuo a rifletterci, e sono davvero rari i libri che lasciano un'impronta così duratura nella memoria.

La storia ruota attorno a Gyeong-ha, una scrittrice che ritorna sull'isola di Jeju per confrontarsi con le ombre del suo passato. Attraverso un viaggio intrapreso per accudire l'uccellino di un'amica ricoverata in ospedale, si immerge nei ricordi del massacro di Jeju del 1948, un evento storico che ha profondamente segnato la Corea del Sud. Il romanzo intreccia memoria, sofferenza e oblio con straordinaria maestria, portando il lettore a riflettere sulla fragilità dell'esistenza umana e sul peso dei traumi collettivi.

Han Kang, vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura nel 2024, conferma con Non dico addio il suo talento eccelso, arricchendo una produzione già iconica che comprende opere fondamentali come La vegetariana, L'ora di Greco e Atti umani. La sua capacità unica di trasformare il dolore in arte sublime rende questo romanzo un'esperienza letteraria indimenticabile, seppur impegnativa, che continua a risuonare ben oltre l'ultima pagina.


genere: narrativa

anno di pubblicazione: 2024


domenica 17 novembre 2024

MENTRE MORIVO

 



Mentre morivoWilliam Faulkner -

recensione a cura di Carmen Nolasco


Ed eccomi qui a recensire un romanzo come ce ne sono pochi. È un privilegio, per me, farlo. È un privilegio, intanto, il solo averlo letto, lo dico subito. E non è per tutti, dico anche questo. Se volete la storiella da leggere sotto l’ombrellone, se volete scivolare veloci sulle pagine appollaiati con deliberata leggerezza, William Faulkner non fa al caso vostro. Premio Nobel per la letteratura nel 1950, con “Mentre morivo” ha decretato la sua inequivocabile grandezza di autore.

La storia è quasi banale: l’odissea di una famiglia, Anse Bundren e i suoi cinque figli, Cash, Darl, Jewel, Vardaman e Dewey Dell, che affronta un viaggio su un carretto malandato e trainato da una pariglia di muli per andare a seppellire Addie Brunden, moglie di Anse e madre dei cinque ragazzi.

Addie Bundren, già mentre moriva, si era fatta costruire la bara dal figlio Cash e aveva chiesto al marito di essere seppellita nel suo paese natio. Ecco dunque il viaggio tra fiumi in piena e ponti crollati, animali annegati e un fienile in fiamme.

In cosa consiste la bellezza del romanzo? Intanto è corale, con una voce narrante in prima persona per ogni capitolo; non solo la voce di Anse, della stessa Addie e dei cinque figli, ma anche di una serie di personaggi che ruotano intorno alla vicenda. In questo modo, tutto ciò che a inizio lettura appare oscuro, giacché non c’è mai nulla di raccontato e l’autore non appare mai dietro le voci, tutto ciò che è incomprensibile, dicevo, acquista via via contorni sempre meglio definiti. Quindici personaggi raccontano la stessa storia e il procedere di questa lungo un percorso irto di ostacoli e ciascuno di essi offrirà, di volta in volta, un elemento in più, quello che ci manca e la cui omissione ci ha disorientati, fino al completamento di un quadro piuttosto preciso.

Ma non è solo questo. Si tratta anche dello stile narrativo, della potenza di ogni singola voce narrante che, nel suo flusso di coscienza, ha una sua esplosiva autenticità. Attraverso la prospettiva di personaggi unici e diversi, emerge una narrazione ricca e sfaccettata e, a seconda di chi racconta, ora profonda, ora inquietante, ora folle, ora squallida.

L’incipit è per voce di Darl: Jewel e io veniamo su dal campo per il sentiero, uno dietro l’altro. Benché io sia cinque metri avanti a lui, uno che ci guardasse dalla baracca del cotone vedrebbe il cappello di paglia di Jewel, sfondato e sfilacciato, di tutta una testa sopra il mio. Darl ha una voce penetrante, un pensiero acuto e diverso da quello degli altri e alla fine si capirà perché.

Ciascuno dei figli, in questo viaggio, svela il proprio modo di affrontare il lutto e la perdita della madre. Le loro voci sono le voci dei contadini che non hanno dimestichezza con la parola e fanno fatica e dare corpo a pensieri e sentimenti. Ciascuno di loro affronta il trauma senza mai parlarne, ignorando il cadavere maleodorante già in decomposizione sul carro, e spostando il senso di perdita su altro; Jewel sul proprio cavallo (Vardaman con la sua voce infantile dirà: la madre di Jewel è un cavallo), Vardaman si concentrerà su un povero pesce morto che egli stesso ha dovuto fare a pezzi per ordine del padre e dirà mia madre è un pesce e ancora: sento dov’era il pesce nella polvere. È tagliato a pezzi di non-pesce, adesso, non-sangue sulle mani e sulla tuta. Prima non era così. Prima non era successo.

L’unico che pare non dolersi per il lutto è Anse, dice di continuo che ha deciso di affrontare il viaggio per obbedire al volere della moglie Addie, ma non è così: lui vuole solo rifarsi i denti in città. E alla fine vorrà anche altro che non è il caso di spoilerare.

Di tutte le voci che svelano sé stesse e rivelano al contempo gli altri, la più intensa è quella della stessa Addie ormai morta: Fu allora che capii che le parole non servono a nulla; che le parole non corrispondono mai neanche a quello che tentano di dire… che peccato, amore e paura sono soltanto dei suoni che gente che non ha mai peccato, amato né avuto paura ha per quello che non ha mai avuto e non potrà avere fintanto non si dimenticherà delle parole.

È sempre la voce di Addie che rivelerà il segreto della famiglia Bundren, la sua voce semplice e oscura. Segreto che il lettore attento ha già colto, a quel punto, in altre voci narranti. E se non l’ha già fatto, e dubito che l’abbia fatto, allora tornerà indietro, come ho fatto io, a sfogliare le pagine precedenti per trovare gli indizi e, così, finalmente, chiudere il cerchio e capire.


genere: narrativa

anno di pubblicazione: 2007


venerdì 6 settembre 2024

MAGNIFICO E TREMENDO STAVA L'AMORE

 



Magnifico e tremendo stava l'amore - M. G. Calandrone -

recensione a cura di Carmen Nolasco


Quante volte si è detto che non è importante solo la storia contenuta in un romanzo, ma come questa storia viene narrata: è l’impronta stilistica che fa la differenza e che, a parità di trama, renderà indimenticabile o da archiviare un libro.

Prendiamo un delitto. Un caso di cronaca che ha riempito le pagine dei giornali.

Prendiamo un’autrice, Maria Grazia Calandrone, che con le parole in prosa ci sa fare, eccome, ma ci sa fare anche con i versi e con una certa lirica toccante.

Prendiamo un punto di vista, quello di Luciana Cristallo – personaggio del libro e persona del mondo reale - che uccide l’ex marito Domenico con dodici feroci coltellate, a cavalcioni sul corpo di lui. E poi viene assolta.

Prendiamo anche un contesto storico e sociale, l’Italia che va dagli anni Ottanta al tragico evento di cronaca nera del 2004. Un contesto di salienti fatti politici e successi musicali che fanno da cornice alla relazione tra Luciana e Domenico.

Quello che otteniamo è un romanzo superlativo dove la Calandrone non si adagia nella banalità di una letteratura sulla violenza di genere, che abbisogna certamente di provvedimenti giudiziari e di giurisprudenza attenta, ma è qualcosa di più: l’emancipazione verso le ragioni dell’amore e della violenza, senza mai veramente schierarsi.

Protagonista indiscusso del romanzo è proprio l’amore nella pluralità delle sue dimensioni e sfaccettature, non solo quello di Luciana per Domenico e quello di Domenico per Luciana, ma l’amore tutto intero, quello di una madre (di Domenico) per il suo unico figlio, l’amore negato, quello disfunzionale, l’amore sofferto, geloso, sbagliato, l’amore impotente dei figli di Luciana, l’amore, insomma, in tutti quei suoi risvolti magnifici e tremendi:

Quando l’amore ci lascia esposti, come prede col ventre semplice e bianco, distratte da una traiettoria erbosa nel secco ruvido della savana.

La lettura, nella prima parte del libro, non scivola benissimo per via di un divagare continuo, dello spostarsi dalla vicenda narrata e avventurarsi in digressioni storiche e sociali, e invece il lettore è inchiodato al fatto, vuole sapere: E poi? E poi… da un certo momento in avanti, è un tornado inarrestabile di prosa e poesia e di tutta quanta la suspense propria del thriller. Geniale. Avanti, dunque, fino al delitto, cruento, inimmaginabile, imprevedibile e duro come un pugno:

Le mie mani pisciavano il tuo sangue. A garganella, a fontanella, a fiotti… La mia mano si leva impetuosa. È senza freni. Come un rumore freddo con brandelli. Sangue sulla camicia. Il tuo interno dilaga dove non deve. Amore, inferno mio.

Amore. L’amore che guarda gli amanti e conosce le loro ragioni, ma non immagina quello che accadrà durante un invito a cena, quando Domenico porta a Luciana fiori e dolce. In quella cucina che poco dopo diventerà la scena del crimine.

L’amore, dietro la colonna della cucina, sta lì (perché c’è ancora, c’è sempre stato) li guarda e non sa. Non sa quello che accadrà tra i due fino a quando non lo vedrà accadere:

Magnifico e tremendo stava l'amore

puro e lacero come un orfano

stava l'amore

con loro in quella stanza

per l'ultima volta insieme

accovacciato dietro la colonna

col volto fra le mani.

 Maria Grazia Calandrone aveva già pubblicato, per Einaudi, nel 2022, Dove non mi hai portata. Nel 2021 ha pubblicato Splendi come vita, per Ponte alle Grazie. Entrambi rispettivamente nella dozzina e nella cinquina del Premio Strega.


genere: narrativa

anno di pubblicazione: 2024

 


venerdì 19 luglio 2024

I BAFFI

 




I baffi - Emmanuel Carrère

recensione a  cura di Carmen Nolasco


Ci tengo molto ai consigli dei librai che conosco. In particolare, vado spesso a trovare due libraie che leggono davvero – non solo il riassunto in copertina.

Così accade che una di loro, giovane e letterariamente onnivora, mi dice che sta leggendo un romanzo di Emmanuel Carrère: I Baffi. E che, se all’inizio la lettura le ha strappato qualche sorriso, proseguendo è entrata in una dimensione di incredulità e inquietudine. Addirittura. Sì, dice: è spiazzante, ma non ho ancora finito di leggerlo.

Allora lo compro! Esclamo. Mi basta questa sua descrizione.

Detto fatto. Mi ritrovo tra le mani 149 pagine, come dire, perturbanti. Scopro che il romanzo è stato pubblicato nel 1986 e che − mi riprometto di andarlo a cercare − ne è stato tratto un film omonimo nel 2005 interpretato, tra gli altri, da Vincent Lindon ed Emmanuelle Devos.

Emmanuel Carrère, l’autore, è nato a Parigi dove attualmente vive, Adelphi ha già pubblicato dodici dei suoi libri.

La storia parte, in effetti, in modo piuttosto divertente: un giovane architetto decide una mattina di tagliarsi i baffi. L’incipit è proprio questo:

«Che ne diresti se mi tagliassi i baffi?». Agnès, che sfogliava una rivista su divano, diede in una risata leggera, poi rispose: «Sarebbe una buona idea»”.

Poi la moglie esce a fare la spesa e il nostro personaggio resta solo. L’operazione di rasatura è accompagnata da sentimenti contradditori: l’eccitazione per la novità del suo cambiamento d’immagine e la preoccupazione per la reazione di Agnès al suo rientro. Ma quando la moglie torna, pare non accorgersi di nulla e non fa alcun riferimento alla questione. I due si recano a cena a casa di amici e anche loro non notano niente. L’architetto si sente in bilico tra un risentimento infantile e un godereccio divertimento per quello che, a questo punto, ritiene essere uno scherzo ideato dalla moglie, del resto avvezza a burle del genere.

La burla però, se di questo si tratta, si protrae oltre il previsto.  Una volta a casa Agnès, interrogata, gli risponderà che lui non ha mai avuto i baffi. Inizia a questo punto un corposo e sconvolgente rimuginare che porterà il nostro uomo a ipotizzare non più uno scherzo innocente della moglie con la complicità degli amici, ma un vero complotto a suo danno che acquisterà, via via, dimensioni sempre più considerevoli e risvolti sgradevoli fino a condurlo al temere per la propria incolumità.

Ciò che il lettore si domanderà per grande parte della lettura, scorrevolissima e sorprendente, è se il protagonista sia un folle paranoico oppure la vittima di una macchinazione di larga portata.

La soluzione arriverà nel proseguo e sarà sempre più sbalorditiva fino a condurci dentro un finale assolutamente imprevedibile.

Come non associare questa lettura al folgorante “Uno, Nessuno e Centomila” di Luigi Pirandello?

  “Mia moglie sorrise e disse: – Credevo ti guardassi da che parte ti pende. Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda: – Mi pende? A me? Il naso? E mia moglie, placidamente: – Ma sì, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra”.

Il viaggio allucinante del protagonista nei meandri tortuosi della mente al fine di sciogliere il dilemma sui presunti baffi è davvero, per tantissime pagine, un incubo senza soluzione che ci rimanda alla questione identitaria non solo pirandelliana, ma anche kafkiana della Metamorfosi, dove la situazione paradossale mette alla prova l’intero equilibrio esistenziale del personaggio.

Nel caso de “I baffi”, a soccorrere il protagonista c’è però un legame amoroso con Agnès così intenso che pare, almeno in un primo tempo, sorreggere l’affanno:

Andrò da uno psichiatra, disse lei. Perché tu? Se c’è qualcuno che è fuori di testa, rispondeva lui, quello sono io. Perché? Perché gli altri la pensano come te, anche secondo loro non ho mai avuto i baffi, quindi sono io che do i numeri. Ci andremo entrambi, disse lei baciandolo, forse alla fin fine è una cosa comune. Tu credi? No. Nemmeno io. Ti amo. E si ripeterono che si amavano, che si credevano, che si fidavano l’uno dell’altra, anche se era impossibile, ma cos’altro potevano ripetere?”.

Senza voler spoilerare nulla, ritengo che la parte più imprevedibile e intensa risiede nel finale: vi farà chiudere il libro con un sopracciglio alzato e la sensazione, terribile e affascinante al tempo stesso, di aver fatto un viaggio, trattenendo il fiato, lungo 149 pagine, attraversando i meccanismi psicologici dell’uomo per il quale la fuga da tutto e da tutti, non rappresenta, come spesso si crede, la salvezza, ma un punto di non ritorno.


genere: narrativa

anno di pubblicazione: 2020

giovedì 30 maggio 2024

CUORE NERO

 




Cuore nero - Silvia Avallone -

recensione a cura di Carmen Nolasco


“Cuore nero” di Silvia Avallone è un romanzo tosto. Una storia intensa che mi ha costretta a non abbandonare la lettura per giungere subito, e con curiosità, al finale e capire quale crimine avesse commesso Emilia, la protagonista. Crimine che, strategicamente, trapela dalle pagine senza essere spiegato nella sua dinamica se non all’ultimo, e questo, lo riconosco, è frutto di abilità narrativa.

Emilia è un personaggio tormentato, forse troppo caratterizzato, ma prende. La storia si snoda come in un film per la capacità di Silvia Avallone di saper creare immagini con le parole. In alcuni tratti la descrizione dei luoghi è incredibilmente vivida e realistica, ci sono frasi intere di audace bellezza.

I temi trattati sono importanti: il dolore, la colpa, il perdono. La solitudine. Il carcere minorile, l’adolescenza, l’amore. Il male. Sono molteplici anche i personaggi: Riccardo, il padre di Emilia; Bruno il co-protagonista che di lei si innamora; Basilio, l’artista; Marta, l’amica; e tanti altri. 

A caldo posso dire che è una storia che turba, cupa e inquietante, con enormi potenzialità − inesplose − e spunti di riflessione. Una storia così forte che mi ha fatto chiudere un occhio sulla scrittura – debole in questo libro − di Avallone. Basta questo a definire buono un romanzo? Basta che sia memorabile? Se la risposta è sì, allora questo romanzo è davvero buono.

Eppure.

Eppure mi è sembrato un romanzo bipolare, con due penne e due anime: interi periodi e descrizioni singolari e di grande impatto associati a banalità stucchevoli e adolescenziali. Costruzioni salde e mature e poi pagine balbettanti piene di ovvietà e di strutture incerte.

Non mi è piaciuto il registro linguistico gergale, mi è parso, in alcuni tratti, una forzatura, ma probabilmente è una questione di gusto; a mio parere ha tolto bellezza e magia alla narrazione. L’uso gergale − e volgare − del linguaggio è certamente funzionale alla storia che si vuole raccontare, ma dovrebbe essere sciolto, ben dosato e soprattutto calibrato sui personaggi; a tratti Bruno ed Emilia paiono la stessa persona, con lo stesso identico modo di esprimersi e questo non può essere: Bruno è un insegnante colto e vive tra i libri, Emilia ha un profilo decisamente più basso.

Altra forzatura l’ho colta nella ricerca stilistica quasi ansiosa, nell’uso teatrale di aggettivi e metafore: le lentiggini crepitanti, il crinale illibato e tanto altro; accostamenti ricercati, goffi e inverosimili.

L’uso del “punto di vista” – che è quello di Bruno, io narrante – è confuso fin dall’inizio ed è paradossale in molte porzioni di testo. Sono la prima a dire che la scrittura è creatività, che non esistono regole e tutto può essere inventato, tuttavia ci deve essere una coerenza che faccia da collante e io qui non l’ho trovata.  Ho avuto la sensazione, piuttosto, che il punto di vista sia stato corretto a posteriori entrando a gamba tesa con gli accorgimenti tipici della revisione editoriale, cosa che giustificherebbe anche quella sensazione di due penne differenti.

In ultimo, ecco il mio parere sul tema di fondo: la colpa. Esprimo, con quest’analisi, una valutazione assolutamente personale come lettrice sui contenuti e i messaggi che ogni narrazione veicola.

La colpa efferata di Emilia viene trattata, secondo me, in maniera non adeguata facendo barcollare il patto di sospensione dell’incredulità. La colpa viene affrontata senza quella necessaria e positiva elevazione dell'anima. Non c'è una vera redenzione, il pentimento − e di conseguenza il perdono altrui − non è inquadrato con risoluzione nell'alveo dell'atroce consapevolezza del male commesso, non è cioè rappresentato con adeguata declinazione psicologica, con la sofferenza per la mera crudeltà dell’atto, si snoda piuttosto nel dramma del pregiudizio sociale e del senso di colpa attraverso una ricostruzione accorata, e dunque inverosimile, dei "realmente futili" motivi. Una questione così profondamente delicata e introspettiva avrebbe dovuto essere trattata con maggiore complessità, con un’articolazione più raffinata, di certo meno stereotipata, soprattutto considerando che la voce narrante è quella di Bruno.  Anche se è da riconoscere alla Vallone la bravura di aver portato alla luce un tema sociale così importante.

Una curiosità: Cuore nero mi ha ricordato la trama del film “Il papà di Giovanna”, film diretto da Pupi Avati e tratto dal suo omonimo romanzo. Ho visto una somiglianza anche fisica tra l’Emilia che ho immaginato durante la lettura e la bravissima attrice Alba Rohrwacher.


genere: narrativa

anno di pubblicazione: 2024

 


venerdì 17 maggio 2024

QUELLA SERA DORATA

 



Quella sera dorata - Peter Cameron -

recensione a cura di Carmen Nolasco


“Quella sera dorata” è un piccolo, raffinato capolavoro di Peter Cameron. Di questo bravissimo autore statunitense avevo già letto “Un giorno questo dolore ti sarà utile” e ne ero rimasta incantata.

Cameron ha la capacità di muoversi leggero nella trama delle sue storie e la sua presenza non è assolutamente percepibile perché i personaggi, tutti così diversi tra loro e così sapientemente caratterizzati, dominano la scena con una personalità forte e credibile, inscenando dialoghi assolutamente spontanei.

La storia si snoda, per il lettore, come se si trovasse in una sala cinematografica. Tanto è vero che il regista James Ivory ne ha realizzato un film che è stato presentato per la prima volta all'European Film Market di Berlino nel febbraio 2009, e a ottobre 2010 è uscito anche nei cinema italiani.

La prima scena del romanzo si apre sul vecchio Adam che cerca di annodarsi il farfallino. Si entra così nel cuore della famiglia Gund: Adam e il suo giovane compagno Pete, la bella Arden, la piccola Porzia, l’affascinante pittrice Caroline. Una famiglia allargata e insolita che ruota intorno a un grande assente: Julius Gunt, uno scrittore latino-americano morto in circostanze misteriose.

Poi Cameron stacca su Omar che, a ben guardare, è il personaggio principale del romanzo. Studente di origini iraniane, Omar Razaghi si è laureato all'Università del Colorado e ha ottenuto una borsa di studio per scrivere una biografia dello scrittore Jules Gund. Quando Omar scrive una lettera alla famiglia Gund per ottenere l’autorizzazione, questa gli viene negata.  Omar è un bravo ragazzo, forse un poco succube della fidanzata Deirdre e, più per far contenta lei che per sua ambizione, si reca in Uruguay, paese dello scrittore Julius Gund, al fine di incontrare i suoi eredi e ottenere l’autorizzazione a scrivere la biografia.

Omar parte dagli USA con un progetto preciso ma, approdato in Uruguay, vedrà completamente stravolta la sua esistenza e mutate tutte le sue priorità.

Da questo momento in poi, infatti, Cameron rivela la sua abilità di narratore conducendo il lettore nelle stravaganze private della famiglia Gund, nei loro intrighi e nelle loro relazioni improprie senza però mai soddisfarne interamente la curiosità, e lo fa in modo stilisticamente perfetto, attraverso la sua tecnica del dire senza dire e del mostrare senza raccontare, tramite accenni nei dialoghi, mezze frasi e nessuna vera epifania.

All’apparenza una commedia frivola, “Quella sera dorata” racconta invece delle profondità dell’animo umano che non è sempre necessario indagare o spiegare.


genere: narrativa

anno di pubblicazione: 2009


lunedì 4 marzo 2024

L'EREDITA' DI ESZTER

 




L'eredita di Eszter - Sandor Marai -

recensone a cura di Carmen Nolasco 


In questo romanzo, Sándor Márai ci racconta un personaggio, Lajos, attraverso la voce narrante di Eszter, e lo fa in una maniera incredibilmente realista e con un ritmo incalzante che cede il passo anche a toni divertiti. L’analisi della personalità di Lajos è così nitida e credibile che ci pare di conoscerlo davvero.

Del resto, chi non ha incontrato un Lajos nella propria vita? Un incantatore “il cui fascino esercitava un effetto immediato, come i sortilegi maligni praticati nei baracconi delle fiere”.  Un mascalzone, in altre parole, un mistificatore o, diremmo forse oggi, un narcisista che tutto muove e manipola per il proprio tornaconto.

Il bello è che lo sanno tutti i personaggi della storia, a cui Lajos ha portato via qualcosa o chiesto denaro in prestito e mai restituito, e lo sa soprattutto Eszter che lo ha amato nei suoi vent’anni e sicuramente lo ama ancora adesso che di anni ne ha quarantacinque. Ma Lajos, che le aveva giurato amore eterno, ha poi sposato la sorella Vilma. Così, d’emblèe. “Forse perché lei era più graziosa, perché quel giorno tirava la tramontana, o perché Vilma aveva voluto così”.

Alla morte prematura di Vilma, che fa in tempo a dargli due figli, Lajos scompare per tornare dopo vent’anni a stupire ancora tutti con quel suo flusso magnetico che ammalia “tutto e tutti, anche le bestie e gli oggetti inanimati”.

In realtà, e questo Eszter lo sa bene, Lajos torna solo per sottrarle l’unica cosa che non le ha ancora portato via. Eszter lo sa bene perché lui “mente come urla il vento, con una specie di forza primordiale” e “in modo incredibilmente pittoresco”.

Ciò che stupisce il lettore è l’analisi spietata e divertita di Eszter e anche la sua resa grottesca. Forse perché “gli amori infelici non finiscono mai”.

Solo alla fine del romanzo, dopo abbiamo conosciuto molto bene Lajos attraverso la voce inequivocabile e a tratti canzonatoria di Eszter, ecco che Márai gli concede uno spazio affinché lui seduca e conquisti anche noi lettori con quella sua abilità di raccontare con tale forza espressiva che tutto prende vita in maniera straordinariamente persuasiva.

Ma nulla di ciò che dice Lajos è vero, o meglio: “tutto è vero ma in un altro senso, in una dimensione diversa”.

Cristallino e tragicomico forse, ma al contempo così reale e avvincente, leggeremo questo romanzo aspettando di incontrare Lajos per farci poi affascinare, come faremmo nella vita vera, dalla sua teatrale esibizione e da “quel senso di allarme continuo” che per Eszter è stato, in fondo, l’unico vero significato della sua vita.

Sándor Márai, nato l’11 aprile del 1900 e scomparso a 89 anni, è stato uno scrittore e giornalista ungherese naturalizzato statunitense. La sua fama è legata in particolare al romanzo Le braci del 1942, anch’esso di una bellezza raffinata e straordinaria.

 
genere: narrativa

anno di pubblicazione: 2004


mercoledì 10 gennaio 2024

LA DONNA DI GILLES

 




La donna di Gilles - Madeleine Bourdouxhe - 

recensione a cura di Carmen Nolasco


Di questo romanzo ho letto la pubblicazione de Gli Adelphi del 2005. Ma è un’opera che ha già una sua bella età essendo stata stampata e ristampata innumerevoli volte. Ne è stato anche tratto un film diretto da Frédéric Fonteyne e presentato nel 2004 alla Mostra del Cinema di Venezia.

Madeleine Bourdouxhe ha pubblicato nel 1937 questo romanzo d’esordio appena trentenne ed è subito diventato un gioiello della letteratura belga. È una storia d’amore, ma non aspettatevi un racconto sdolcinato e tenero, è una storia crudele e intensa. La trama è davvero molto semplice eppure il romanzo è complesso e memorabile.

Dopo questo capolavoro, irripetibile, l’autrice è rimasta quasi assente, tranne poche apparizioni, dalla scena letteraria. La femme de Gilles è un’opera straordinaria per la minuziosa capacità di indagare, e tradurre in parola, le profonde, dolorose, deliranti emozioni umane.

Elisa non è veramente sé stessa, non è consapevole della propria unicità e del proprio valore, questi sono strettamente connessi all’esistenza di Gilles, ai bisogni di Gilles, alla bellezza di Gilles e alla sua abnegazione per Gilles. Lei è la donna di Gilles, e così sarà fino a quasi la fine del racconto.

Moglie devota? No, oggi diremmo legame patologico, annientamento psicologico. Diremmo dipendenza affettiva.

Gilles, dal suo canto, non è un marito e padre devoto. Un giorno, a smuovere Elisa dalla sua adorazione incondizionata, è l’intuizione e poi la scoperta di un tradimento. Non un tradimento qualsiasi, ma un tradimento che non si dovrebbe mai subire. E lei, Elisa, lo subisce in una forma per nulla indolente, come potrebbe apparire di primo acchito, ma a suo modo attiva e così lontana dall’immaginario collettivo della donna tradita da fare accapponare la pelle.

Cosa non farebbe Elisa, pur di stare accanto al suo Gilles e alleviargli le pene?

Il racconto è così toccante ― e in un certo senso scandaloso ― così privo di qualsiasi teatralità e concentrato sui fatti nudi e crudi, da entrare come un treno in corsa nell’emotività del lettore. Nessuno può restare indifferente di fronte a questa lettura. È come guardare un film e soffrire e sperare nel lieto fine. O nella giustizia. O, ancora, nella riparazione finale del torto.

A un certo punto la narrazione appare perfino grottesca, così incomprensibile e lontana dalle nostre vite da sbigottirci. Oppure, lasciatemelo dire, così vicina alla parte più intima del nostro cuore, da affondare con facilità e naturalezza nel mare oscuro delle nostre vere, umane debolezze.

genere: narrativa

anno di pubblicazione: 1937

venerdì 3 novembre 2023

LA CAMERA AZZURRA




La camera azzurra - Georges Simenon -

recensione a cura di Carmen Nolasco

 

Metti una storia extraconiugale in apparenza come tante. Due amanti “sfrenati” che si incontrano nella camera azzurra di un hotel in un piccolo borgo francese. Metti che uno dei due, il protagonista, Antoine Falcone detto Tony, viva la relazione con leggerezza, in una dimensione evanescente parallela alla vita vera – e coniugata ― in cui nulla ha peso, nemmeno le parole: “le parole contavano poco...” “Davvero c’è gente che passa la vita a guardarsi allo specchio a interrogarsi su sé stessa?”

Metti che invece lei, Andrèe, alle parole dia importanza. Che dia importanza a quella loro storia, a quell’amore.  Come sei bello, Tony…” “Mi ami, Tony?” “Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?”

Ecco dunque che la diversa prospettiva dei due personaggi diventa il punto focale dell’intreccio: una storia di amore e di morte che viene fuori in modo così centellinato da impedire al lettore di staccarsi dalle pagine del libro. E se la moglie di Tony, Gisèle, remissiva e delicata, non viene messa in discussione dal suo uomo nel ruolo acquisito di compagna di vita, la stessa cosa non accade a Nicolas, il malaticcio e anonimo marito della seducente Andrèe.

La scrittura magistrale di Simenon non risiede solo nella trama perfetta, raccontata in centocinquanta pagine. Non è solo nella prosa pulita ed essenziale. Né, unicamente, nello svolgimento parsimonioso del ricordo, o nella sovrapposizione di piani temporali: il tempo narrato e il tempo della narrazione. La sua scrittura sapiente non abita soltanto i dialoghi lineari ripetuti in modo ossessivo durante il lungo interrogatorio a cui Tony è sottoposto. Il vero talento di Simenon si compie nella strategia narrativa di rivelare subito al lettore che è accaduto qualcosa di orribile nella vita del protagonista, senza tuttavia svelare, per quasi tutta la lettura, di cosa si tratti.

L’interrogatorio, condotto da un giudice e dall’avvocato di Tony, è lo stratagemma attraverso il quale l’autore ricostruisce, pezzo per pezzo, l’intera vicenda. Una vicenda in cui la psicologia dei due amanti viene portata alla luce con una crudità abbagliante. Molto lentamente, ma con un’ansia incalzante, emerge la verità tra domande e risposte laconiche: non solo la tragica circostanza che ha portato Tony a essere sottoposto a un interrogatorio serrato, ma anche l’azzardo di una relazione clandestina vissuta da lui come mero appagamento dell’eros, e che si rivelerà invece, presto, molesta e fatale.

genere: narrativa

anno pubblicazione ed. Adelphi: 2008

anno prima pubblicazione: 1964