Mentre morivo - William Faulkner -
recensione a cura di Carmen Nolasco
Ed eccomi qui a recensire un romanzo come ce ne sono pochi. È
un privilegio, per me, farlo. È un privilegio, intanto, il solo averlo letto,
lo dico subito. E non è per tutti, dico anche questo. Se volete la storiella da
leggere sotto l’ombrellone, se volete scivolare veloci sulle pagine appollaiati
con deliberata leggerezza, William Faulkner non fa al caso vostro. Premio Nobel
per la letteratura nel 1950, con “Mentre morivo” ha decretato la sua inequivocabile
grandezza di autore.
La storia è quasi banale: l’odissea di una famiglia, Anse Bundren
e i suoi cinque figli, Cash, Darl, Jewel, Vardaman e Dewey Dell, che affronta
un viaggio su un carretto malandato e trainato da una pariglia di muli per
andare a seppellire Addie Brunden, moglie di Anse e madre dei cinque ragazzi.
Addie Bundren, già mentre moriva, si era fatta costruire la
bara dal figlio Cash e aveva chiesto al marito di essere seppellita nel suo
paese natio. Ecco dunque il viaggio tra fiumi in piena e ponti crollati,
animali annegati e un fienile in fiamme.
In cosa consiste la bellezza del romanzo? Intanto è corale, con
una voce narrante in prima persona per ogni capitolo; non solo la voce di Anse,
della stessa Addie e dei cinque figli, ma anche di una serie di personaggi che
ruotano intorno alla vicenda. In questo modo, tutto ciò che a inizio lettura
appare oscuro, giacché non c’è mai nulla di raccontato e l’autore non appare
mai dietro le voci, tutto ciò che è incomprensibile, dicevo, acquista via via
contorni sempre meglio definiti. Quindici personaggi raccontano la stessa
storia e il procedere di questa lungo un percorso irto di ostacoli e ciascuno
di essi offrirà, di volta in volta, un elemento in più, quello che ci manca e la
cui omissione ci ha disorientati, fino al completamento di un quadro piuttosto
preciso.
Ma non è solo questo. Si tratta anche dello stile narrativo,
della potenza di ogni singola voce narrante che, nel suo flusso di coscienza,
ha una sua esplosiva autenticità. Attraverso la prospettiva di personaggi unici
e diversi, emerge una narrazione ricca e sfaccettata e, a seconda di chi
racconta, ora profonda, ora inquietante, ora folle, ora squallida.
L’incipit è per voce di Darl: Jewel e io veniamo su dal
campo per il sentiero, uno dietro l’altro. Benché io sia cinque metri avanti a
lui, uno che ci guardasse dalla baracca del cotone vedrebbe il cappello di
paglia di Jewel, sfondato e sfilacciato, di tutta una testa sopra il mio. Darl
ha una voce penetrante, un pensiero acuto e diverso da quello degli altri e alla
fine si capirà perché.
Ciascuno dei figli, in questo viaggio, svela il proprio modo
di affrontare il lutto e la perdita della madre. Le loro voci sono le voci dei
contadini che non hanno dimestichezza con la parola e fanno fatica e dare corpo
a pensieri e sentimenti. Ciascuno di loro affronta il trauma senza mai parlarne,
ignorando il cadavere maleodorante già in decomposizione sul carro, e spostando
il senso di perdita su altro; Jewel sul proprio cavallo (Vardaman con la sua
voce infantile dirà: la madre di Jewel è un cavallo), Vardaman si
concentrerà su un povero pesce morto che egli stesso ha dovuto fare a pezzi per
ordine del padre e dirà mia madre è un pesce e ancora: sento dov’era
il pesce nella polvere. È tagliato a pezzi di non-pesce, adesso, non-sangue
sulle mani e sulla tuta. Prima non era così. Prima non era successo.
L’unico che pare non dolersi per il lutto è Anse, dice di
continuo che ha deciso di affrontare il viaggio per obbedire al volere della
moglie Addie, ma non è così: lui vuole solo rifarsi i denti in città. E alla
fine vorrà anche altro che non è il caso di spoilerare.
Di tutte le voci che svelano sé stesse e rivelano al contempo
gli altri, la più intensa è quella della stessa Addie ormai morta: Fu allora
che capii che le parole non servono a nulla; che le parole non corrispondono
mai neanche a quello che tentano di dire… che peccato, amore e paura sono
soltanto dei suoni che gente che non ha mai peccato, amato né avuto paura ha
per quello che non ha mai avuto e non potrà avere fintanto non si dimenticherà
delle parole.
È sempre la voce di Addie che rivelerà il segreto della
famiglia Bundren, la sua voce semplice e oscura. Segreto che il lettore attento
ha già colto, a quel punto, in altre voci narranti. E se non l’ha già fatto, e dubito
che l’abbia fatto, allora tornerà indietro, come ho fatto io, a sfogliare le pagine
precedenti per trovare gli indizi e, così, finalmente, chiudere il cerchio e capire.
genere: narrativa
anno di pubblicazione: 2007
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