Ogni mattina a Jenin - Susan Abulhawa .
recensione a cura di Miriam Donati
Dalla
"nakba" o cataclisma che ha visto l'invasione della Palestina o, per
dirla in altro modo, la fondazione dello Stato di Israele sono passati 77 anni.
Mi
aveva sorpreso quando lo lessi per la prima volta più di dieci anni fa che Ogni
mattina a Jenin fosse stato il primo romanzo mainstream in inglese a
esplorare la vita nella Palestina post 1948 e vale la pena ricordare che la
stabilità e la distanza di cui la letteratura ha spesso bisogno sono state
scarse per i palestinesi.
L’ho
ripreso sull’onda delle notizie che ci arrivano quotidianamente da Gaza, dove
orrore e dolore si mescolano all’impotenza.
Il
libro di Susan Abulhawa trasporta nell’aspra geografia di Palestina e Israele e
nel cuore della lotta tra due parti bloccate in un conflitto senza fine,
esaminando quel conflitto dal punto di vista di una scrittrice palestinese.
Narra la storia di una nazione e di un popolo attraverso racconti di vite
ordinarie vissute in circostanze straordinarie. Poco sensazionale, a volte
persino ingenuo, ha un'atmosfera che permette agli eventi di parlare da soli.
La
storia segue le vicende della famiglia Abulheja, palestinesi, obbligati a
lasciare le loro case a Ein Hod nel 1948 dai soldati israeliani e trasferiti in
massa a Jenin, un campo profughi in Cisgiordania, soprattutto attraverso Amal,
nipote del capostipite, con le drammatiche vicende dei suoi due fratelli,
costretti a diventare nemici: il primo rapito da neonato e diventato un soldato
israeliano, il secondo che invece consacra la sua esistenza alla causa
palestinese. E, in parallelo, si snodano amori, lutti, matrimoni, maternità e, soprattutto
la storia della Palestina, intrecciata alle vicende di questa famiglia che
diventa simbolo delle famiglie palestinesi nell'arco di quasi sessant'anni.
Il
capitolo finale è ambientato a Jenin nel 2002, all'indomani dell'attacco
militare israeliano e della battaglia che è durata dodici giorni provocando
distruzione e morte.
L'autrice
illustra scrupolosamente l'impatto del conflitto sulle vite individuali,
esplorando le profondità emotive dei suoi personaggi, illustrando soprattutto
il peso della perdita e della memoria.
Tutti
i personaggi sono dipinti con pennellate sfumate, rivelando le loro speranze,
sogni, paure e momenti ordinari. Questa molteplicità consente la comprensione
di come gli stessi eventi possano influenzare gli individui in modo diverso e
mette in evidenza l'impatto intergenerazionale del trauma dello sradicamento.
Le
donne nella storia sono ritratte non solo come vittime, ma come partecipanti
attive alla lotta per il ritorno alla normalità. Attraverso il viaggio di Amal,
la protagonista, la narrazione sfida le percezioni tradizionali delle
aspettative di genere e mette in mostra la resilienza e la forza delle donne. Inoltre,
l'intreccio di momenti di gioia e amore in mezzo alla disperazione è una
testimonianza della resilienza umana; anche se il libro ritrae la dura realtà
della vita in un campo profughi, pur nelle circostanze più cupe, i personaggi
trovano momenti di risate, unione e speranza.
L'autrice
trova un delicato equilibrio tra narrazione e commento sociale, stimolando a
riflettere criticamente sulle implicazioni più ampie della narrazione. La trama
tocca le complessità della resistenza, della vendetta e dell'impatto della
presenza militare sulla vita dei civili, mantenendo una narrazione
profondamente personale.
Lo
stile di scrittura di Abulhawa esalta la risonanza emotiva della narrazione. L’uso
che fa del simbolismo in alcuni tratti arricchisce il testo sollecitando i
lettori a interagire su più livelli.
Uno
dei temi centrali è il modo in cui il conflitto rimodella le identità
individuali e collettive. I personaggi più giovani come Amal crescono in un
mondo in cui la loro patria non è più la loro, il che li porta a mettere in
discussione il loro senso di sé e di appartenenza mentre sono alle prese con
sentimenti di confusione, perdita e rabbia.
La
capacità della famiglia di mantenere i legami, di trovare momenti di gioia e di
sostenersi a vicenda evidenzia l'imperativo della speranza anche in situazioni
difficili, dimostrando che la resilienza passa attraverso le relazioni
inducendo a desiderare un futuro nonostante l'incertezza.
Un
altro tema chiave è il ruolo della memoria del trauma, in particolare nel
plasmare le vite e le esperienze dei personaggi. Abulhawa mostra come i traumi
del passato perpetuino cicatrici emotive che possono influenzare le generazioni
future. Questo tema è particolarmente rilevante nel contesto delle tragedie
storiche, in quanto esplora come il dolore non guarito possa manifestarsi in
vari modi. Le continue lotte dei personaggi con i loro ricordi sottolineano la
necessità di comprensione, guarigione e riconoscimento delle ingiustizie
passate.
Nel
libro ci sono episodi realmente accaduti, c'è la storia di un popolo che è
stato sradicato dalla propria terra, e di un altro popolo in cerca di un paese
da chiamare casa. Ci sono due punti di vista politici opposti che si danno
battaglia. Nonostante la tesi di fondo sia filo-palestinese, non punta a
screditare l'altra fazione, ma la nobilita inserendo personaggi ebrei di
notevole spessore, fra cui l'amico d'infanzia del padre di Amal, Ari Perelstein.
Il
romanzo intreccia realtà personali e politiche, trascinando i lettori nelle
vite dei personaggi e illuminando i temi più ampi del conflitto, dell'identità
e della resilienza ispirando la riflessione e la discussione. In un mondo
sempre più polarizzato, ricorda la nostra umanità condivisa e la ricerca
universale di pace e comprensione. In sintesi, Ogni mattina a Jenin è
una lettura toccante ed emotiva che trascende i confini della narrativa
storica.
Un
libro così con una storia che si eleva al di sopra della politica e tocca le
corde emotive dei lettori, con stile e grazia aiuta la causa palestinese ad
avere giustizia più di mille proclami e conferenze.
Ed
è per questo che è apprezzabile al di là dei difetti che per me ci sono: la
scrittura in generale è troppo esplicativa e a volte didascalica, ha punte
efficaci, quasi poetiche e punte ridondanti, il linguaggio figurato è carico di
metafore e similitudini, che conferiscono al testo (specialmente negli ultimi
capitoli) un tono a volte troppo enfatico. L’alternanza fra la terza e la prima
persona è calzante in particolare nei momenti di maggiore tensione, in altre
parti resta però sconnessa.
Genere
Narrativa storica
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