Un uomo solo - Christopher Isherwood -
“L’artista
da circo non ha un sipario che cali e lo nasconda, lasciando intatto l’incanto
e la magia del suo numero. Sospeso al trapezio sotto il fascio delle luci, ha
brillato e tremato come una stella. Ma ora che è a terra, senza i riflettori
addosso, eppure chiaramente visibile da tutti – anche se tutti, ora guardano i
clown – corre oltre le gradinate, verso l’uscita.”
Quante
volte ci diciamo a chiusura dell’ultima pagina di un libro che ci manca
qualcosa? Succede quando il dispiacere per non avere altre pagine da leggere
supera il piacere provato per quelle lette e nel caso di questo testo le due
pagine finali splendide e magistrali nella loro narrazione lasciano il lettore
abbandonato a una solitudine struggente che è la stessa che prova il
protagonista per tutto il suo racconto.
Il
romanzo scritto nel 1964, in Italia pubblicato per la prima volta nel 1981,
racconta con limpidezza e senza sensi di colpa o vergogna i rapporti amorosi,
affettivi e sessuali che intercorrono fra due uomini affidandosi a minute
descrizioni dei fatti quotidiani e deviazioni progressive dei pensieri e dei
sentimenti approfonditi nel desiderio di verità del narratore che parla di sé
al presente in terza persona in una sovrapposizione autobiografica con l’autore
che non diventa mai confessione, ma osservazione oggettiva.
Vi
si descrive una giornata di George, un apprezzato professore inglese che
insegna alla Los Angeles University ai tempi della crisi tra Stati Uniti e Cuba
nel 1962. La voce narrante è proprio quella di George che è rimasto solo dopo
la morte, a causa di un incidente automobilistico, del compagno Jim e alterna
un tono tagliente e sarcastico a un tono che pur scabro e ruvido è ricco e
illuminante di riflessioni esistenziali scagliandosi contro la borghesia
americana con il suo finto perbenismo, l’omologazione senza fantasia, il
consumismo e la finta uguaglianza che lo costringe a indossare una maschera per
proteggere la propria omosessualità. Scava con forza in profondità dentro di sé
per contrapporre il proprio mondo a quello degli altri per resistere e sentirsi
ancora vivo. Sotto le rughe che avanzano si intravvede ancora il ragazzo tenero
e affascinante che è stato. Attraverso una routine abitudinaria pensa di poter
mantenere per lo meno un precario e abbastanza soddisfacente equilibrio fino a
un intoppo imprevedibile.
La
sua giornata è un viaggio fisico e mentale sospinto solo dalla voglia di non
rimanere completamente solo, scandito da una serie di tappe che attraversa tra
dubbi e rassegnazione. È risentito, annoiato, cerca negli occhi dei propri
studenti un barlume di ascolto, una risposta di comprensione. Dibatte sul
romanzo di Huxley Dopo molte estati muore il cigno e sui temi a lui
cari: l’emarginazione, l’esclusione, l’odio razziale, l’identità e la
competitività delle minoranze. Ma quando suona la campanella di fine lezione
torna a sentirsi di nuovo solo in mezzo a gente che non lo capisce e che non ha
ascoltato quello che ha detto.
George
non riesce simpatico al lettore, tutt’altro, e questo a causa della sua
sincerità nel sentirsi sdoppiato: il confronto con gli altri lo conforta e lo
abbatte, le parole lo incoraggiano e lo spaventano, i libri letti, prima
compagni di vita, ora li giudica inutili, si lascia andare al desiderio per
ripiegare subito nella paura e nella disillusione. George rifiuta il pianto e
compiange in silenzio la morte di Jim e quella imminente dell’amica nemica
Doris perché lo mantengono dolorosamente ancorato alla vita.
Con
l’altra amica, Charley, l’unica donna della sua vita, che lo capisce e c’è
sempre stata con lui e Jim, la sola che lo unisce nell’amore per l’Inghilterra
da cui entrambi provengono, mantiene un’amicizia trascurata ma indispensabile
che gli permette appunto di conservarsi sincero.
E
poi c’è l’imprevisto che arriva con la notte: Kenny Potter, uno dei suoi
studenti, è la materializzazione dei suoi desideri, perché il dolore non ha
spento le sue pulsioni, corpo e anima non sono più due identità diverse. Un
incontro pieno di sottigliezze, stati d’animo che mutano, pensieri sotterranei.
L’incontro li condurrà in una folle corsa sulla spiaggia e poi tra le onde
dell’oceano e poi fino a casa del professore in una pagina di grande
letteratura. Basta poco per non essere più soli: “se non mangiassimo mai
soli, soffriremmo di solitudine?”.
L’autore
crea complicità con il lettore intercalando a volte alla terza persona la
seconda e la prima plurale e rivolgendosi a Jim direttamente.
Oltre
alla solitudine, l’argomento costante del libro è la morte: quella di Jim,
quella che ipotizza per sé George (un’ipotesi che facciamo tutti, un gioco in
cui ci chiediamo come sopravvivere al dolore) e quella sullo sfondo che sta
vivendo l’America a causa della guerra dei missili a Cuba.
Alla
fine il libro lascia una malinconia che sembra un saluto di addio alla vita che
Isherwood forse sentiva non così lontano.
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