La casa della
moschea – Kadar Abdolah - 
recensione a cura di Lilli Luini
Un romanzo che
lascia il segno, questo di Kadar Abdolah, scrittore persiano emigrato – anzi,
riparato in Olanda. Ho scritto “persiano” e non iraniano per rispettare il
sentimento dell’autore, che si riconosce nella Persia di Sherazade, dei tappeti
dai mille disegni e dei giardini in fiore, non certo nell’Iran degli ayatollah
che gli ha ucciso un fratello e ha costretto lui alla fuga. 
“C’era una volta
una casa, una casa antica, che si chiamava “la casa della moschea”. Era una
grande casa, con trentacinque stanze. Lì, per secoli, famiglie dello stesso
sangue avevano vissuto al servizio della moschea. Ogni stanza aveva una
funzione e un nome corrispondente a quella funzione, come la stanza della
cupola, la stanza dell’oppio, la stanza dei racconti, la stanza dei tappeti, la
stanza dei malati, la stanza delle nonne, la biblioteca e la stanza del corvo”.
Comincia così, in
tono quasi fiabesco, la narrazione della vicenda legata a una famiglia che da
secoli vive in quella casa, generazione dopo generazione. La figura centrale
del romanzo è quella di Aga Jan, ricco mercante di tappeti nella città
religiosa di Senjan. All’inizio siamo nel 1969 e il nipote costringe lui e
l’anziano iman della moschea a guardare lo sbarco sulla luna su una piccola Tv
che ha portato a casa di nascosto. Siamo nell’epoca dello Scià e della sua
politica filo-occidentale. A Teheran si guarda la Tv, si canta e si balla, le
ragazze non indossano più il chador ma le minigonne. Ma a Senjan tutto questo
non è arrivato e guai se si sapesse che nella casa della moschea c’è un
televisore. Ma il nipote insiste: devono conoscere cosa sta là fuori, invece di
vivere in un’atmosfera quasi fiabesca, tra i canti degli uccelli e i fiori. Il
sentimento religioso è forte ma mai fanatico, lo Scià non è amato ma la sua
influenza resta distante, quando non assente. La Persia come la conosceva è
cambiata ma nella casa della moschea tutto continua come prima. Finché tutto
cambia direzione, all’improvviso Aga Jan vede le persone che conosceva voltare
faccia e la Persia diventa l’Iran degli ayatollah, con il suo carico di sangue,
torture, dolore e morte. Stavolta la casa della moschea non verrà risparmiata. 
Tutto questo
viene raccontato in quasi cinquecento pagine intensissime, con un registro
narrativo azzeccato, capace di saltare giorni, settimane, mesi e poi anni senza
mai perdere il filo della vicenda e della Storia. Stupendo è il crescendo
rossiniano della vicenda, con una prima parte che sa di una pace quasi fuori
dal mondo e che poi via via diventa tragedia. 
Il romanzo è
corale, ricco di personaggi che restano impressi subito e di altri che, rimasti
in ombra, assurgono a un ruolo primario nel momento in cui la rivoluzione degli
ayatollah impone di prendere posizione e non sottrarsi alle proprie
responsabilità, anche a costo della morte o dell’esilio. Allo stesso modo,
altri sposeranno in pieno la causa di Khomeini, tradendo la loro stessa
famiglia. 
Ciò che salta
all’occhio è il profondo senso di appartenenza dei personaggi che suggerisce
continuità, addirittura eternità e tutto questo coinvolge e appassiona chi
legge proprio come i grandi romanzi del passato. C’è naturalmente il pregio di
introdurci a un pezzo di Storia che conosciamo solo dai telegiornali e che
invece qui ci mostra dal vivo una tragedia terribile, che l’autore ha vissuto
in prima persona. 
Un libro da
leggere su un mondo che troppo spesso liquidiamo con la nostra fissazione di
voler definire le cose bianche o nere, senza preoccuparci di approfondire e
conoscere. 
genere: narrativa
anno di pubblicazione: 2008

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