venerdì 3 novembre 2023

PORTE APERTE

 




Porte aperte - Leonardo Sciascia

 Recensione di Miriam Donati

 

A Palermo, verso la fine degli Anni Trenta, inizia un processo per "un crimine atroce e folle”, di cui è protagonista un personaggio che ha confessato il delitto anche se non è pienamente consapevole della portata delle sue azioni, un personaggio vinto quanto quelli di Verga e sgradevole quanto quelli di Pirandello.

Lo sguardo dell’autore si allarga sulla società e il costume del tempo, il contesto storico-politico e la riflessione morale sul valore della legge, sul ruolo della giustizia e sulle più o meno libere scelte umane.

Il giudice protagonista, a causa delle opinioni espresse nelle conversazioni con il procuratore e uno dei giurati, si dimostra essere un intellettuale progressista e umanitario e Sciascia ne esalta la parte speculativa e argomentativa.

Non è mai riportata una sua arringa o un suo intervento nel dibattimento. Non si sa nulla della sua famiglia, se non una breve allusione della moglie, preoccupata per il futuro professionale del marito nell’eventualità di una sentenza che non fosse di morte.   

Il “piccolo giudice” con la sua posizione morale difende un principio più che la salvezza dell’imputato; si oppone, in un serrato argomentare filosofico, a un’idea di stato garante dell’ordine grazie a un uso assoluto della forza. Gli argomenti del protagonista smascherano la natura artificiosa della legge, ammantata di nobili intenzioni, ma spinta, in effetti, da evidenti fini propagandistici. Il ripristino della pena capitale nasconde in realtà un obbiettivo politico: il consolidamento del consenso derivante dal ruolo di garante dell’ordine che il regime intende ricoprire.

La convinzione che in Italia si possa dormire con le porte aperte, per quanto infondata, si alimenta del mito di uno stato forte, pronto a punire esemplarmente chi attenti alla sicurezza dei cittadini. Il nuovo codice penale serve allora solo a costruire la percezione nella coscienza popolare che lo stato ha a cuore il benessere degli onesti, vigila, interviene e punisce chi intende minacciarlo.

Inoltre un processo si può impostare e costruire già precorrendone gli esiti e, come ipotizza il procuratore, in tal caso, sarà neutralizzato nel processo di appello. Processo che sarà a sua volta congegnato a partire dalla scelta del tribunale e degli avvocati in modo tale da impedire la conferma di una sentenza non desiderata, avendo anche eventuali ripercussioni sulla carriera del “piccolo giudice”.

La posizione del protagonista si fa quasi paradossale: fiducioso nell’esistenza della norma, come necessario antidoto all’illimitato arbitrio dei potenti, non può che constatarne la parzialità di strumento funzionale a un arbitrio ancora più raffinato e sottile, e, dunque, più difficilmente smascherabile. Parlare in nome della legge non significa necessariamente farsi portavoce di giustizia.

Per questo motivo, l’atteggiamento del procuratore, che vede nei magistrati dei meri esecutori della legge, appare a Sciascia una soluzione di comodo, uno scarico di responsabilità.

L’autentica grandezza per l’uomo di legge sta invece nel sottoporre la legge stessa a un esame più attento, compiuto da una posizione etica superiore, e, nello stesso tempo, nel respingere la tentazione della semplificazione, della delega, del rifugiarsi sotto le ali protettive del legislatore nel momento della scelta morale.

Scritto nel 1987 rimane tutt’ora attuale, se non attualissimo, nella disamina del dilemma etico che propone.  

 Genere: Narrativa

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