Porte aperte - Leonardo Sciascia
A Palermo, verso la fine degli Anni Trenta, inizia un processo per
"un crimine atroce e folle”, di cui è protagonista un personaggio che ha
confessato il delitto anche se non è pienamente consapevole della
portata delle sue azioni, un
personaggio vinto quanto quelli di Verga e sgradevole quanto quelli di
Pirandello.
Lo sguardo dell’autore si
allarga sulla società e il costume del tempo, il contesto storico-politico e la
riflessione morale sul valore della legge, sul ruolo della giustizia e sulle
più o meno libere scelte umane.
Il giudice protagonista,
a causa delle opinioni espresse nelle conversazioni con il procuratore e uno
dei giurati, si dimostra essere un intellettuale progressista e umanitario e Sciascia
ne esalta la parte speculativa e argomentativa.
Non è mai riportata una sua
arringa o un suo intervento nel dibattimento. Non si sa nulla della sua
famiglia, se non una breve allusione della moglie, preoccupata per il futuro
professionale del marito nell’eventualità di una sentenza che non fosse di
morte.
Il “piccolo giudice” con
la sua posizione morale difende un principio più che la salvezza dell’imputato;
si oppone, in un serrato argomentare filosofico, a un’idea di stato garante
dell’ordine grazie a un uso assoluto della forza. Gli argomenti del
protagonista smascherano la natura artificiosa della legge, ammantata di nobili
intenzioni, ma spinta, in effetti, da evidenti fini propagandistici. Il
ripristino della pena capitale nasconde in realtà un obbiettivo politico: il
consolidamento del consenso derivante dal ruolo di garante dell’ordine che il
regime intende ricoprire.
La convinzione che in
Italia si possa dormire con le porte aperte, per quanto infondata, si alimenta
del mito di uno stato forte, pronto a punire esemplarmente chi attenti alla
sicurezza dei cittadini. Il nuovo codice penale serve allora solo a costruire
la percezione nella coscienza popolare che lo stato ha a cuore il benessere
degli onesti, vigila, interviene e punisce chi intende minacciarlo.
Inoltre un processo si
può impostare e costruire già precorrendone gli esiti e, come ipotizza il
procuratore, in tal caso, sarà neutralizzato nel processo di appello. Processo
che sarà a sua volta congegnato a partire dalla scelta del tribunale e degli
avvocati in modo tale da impedire la conferma di una sentenza non desiderata,
avendo anche eventuali ripercussioni sulla carriera del “piccolo giudice”.
La posizione del
protagonista si fa quasi paradossale: fiducioso nell’esistenza della norma,
come necessario antidoto all’illimitato arbitrio dei potenti, non può che
constatarne la parzialità di strumento funzionale a un arbitrio ancora più
raffinato e sottile, e, dunque, più difficilmente smascherabile. Parlare in
nome della legge non significa necessariamente farsi portavoce di giustizia.
Per questo motivo,
l’atteggiamento del procuratore, che vede nei magistrati dei meri esecutori
della legge, appare a Sciascia una soluzione di comodo, uno scarico di
responsabilità.
L’autentica grandezza per
l’uomo di legge sta invece nel sottoporre la legge stessa a un esame più
attento, compiuto da una posizione etica superiore, e, nello stesso tempo, nel
respingere la tentazione della semplificazione, della delega, del rifugiarsi
sotto le ali protettive del legislatore nel momento della scelta morale.
Scritto nel 1987 rimane
tutt’ora attuale, se non attualissimo, nella disamina del dilemma etico che
propone.
Nessun commento:
Posta un commento