Eva dorme – Francesca Melandri -
recensione a cura di Lilli Luini
Questo,
a mio parere, è uno dei più belli tra i romanzi italiani degli ultimi 25
anni.
Uscito
nel 2010, viene riproposto da Bompiani proprio in questo primo scorcio d’anno.
La
vicenda si svolge in Alto Adige e prende virtualmente il via nel 1919, quando –
alla fine della Grande Guerra – la regione viene assegnata all’Italia. La
popolazione è in massima parte di lingua tedesca e fin da subito mal accetta di
essere divisa dall’Austria, considerata Heimat, il cui significato è un
misto tra patria e casa. I libri di Storia non ci hanno mai parlato di quella
terra, delle sue vicissitudini. Non ci hanno detto come, all’avvento del
fascismo, Mussolini fa partire migliaia di italiani verso l’Alto Adige, perché
si insediassero e italianizzassero quell’angolo di confine. Le leggi proibirono
l’uso della lingua tedesca, negli uffici pubblici i residenti doveva compilare
domande in italiano, chiedere informazioni in italiano, e nessuno glielo aveva
insegnato. Non dimentichiamo che erano tempi in cui l’analfabetismo era quasi
la norma, soprattutto in valli remote.
Agli
altoatesini venne post un aut aut: o si italianizzavano o lasciavano tutto, il
loro maso, le loro terre e si trasferivano in Austria. Molti andarono via,
altri rimasero e tra questi la famiglia Huber, contadini poverissimi. Ed è la
loro storia che la Melandri racconta sullo sfondo delle vicende politiche del territorio, dalle incomprensioni tra
residenti e immigrati, passando per il terrorismo (prima le bombe ai tralicci,
poi gli agguati a poliziotti e carabinieri, con molti morti che sono stati
dimenticati) fino agli accordi per l’autonomia della provincia di Bolzano e il
riconoscimento del bilinguismo, accordo perseguito da Silvius Magnago,
presidente e fondatore del SudTirolen Volkspartei e Aldo Moro, allora
Presidente del Consiglio. Una ricerca storica impeccabile, quella della
Melandri, che va a colmare le lacune sulla storia del nostro paese.
Ma
il valore di questo libro non è solo storico, è anche letterario.
La
vicenda di Gerda Huber, ragazza madre negli anni 60 e di sua viglia, la Eva del
titolo, è narrata su due piani temporali. Quella di Gerda, in terza persona al
passato, segue al tempo stesso la vita della protagonista e quella della sua
terra in ordine cronologico.
Quella
di Eva è in prima persona al presente, mentre percorre tutta l’Italia, dal
paese nelle valli, dov’era tornata per trascorrere la Pasqua con la madre, fino
a Reggio Calabria, la città dell’unico uomo che lei abbia sentito “padre”. Vito
Anania è stato per qualche anno il compagno di Gerda e le ha amate
profondamente, ricambiato. Poi è sparito, ad Eva non è mai stato spiegato il
perché e lei ha convissuto con quella mancanza per oltre trent’anni. Se ne
accorge nel momento in cui riceve la telefonata: Vito sta morendo e vuole
rivederla. Eva molla tutto e parte, senza avvisare né la madre né Carlo, l’uomo
di cui da 11 anni è l’amante segreta.
Il
racconto e i pensieri di Eva scorrono insieme all’Italia e la sua capacità di osservare
e vedere oltre le cose rendono queste pagine intense come poche volte mi è
capitato.
Insomma,
c’è molto, in questo libro: c’è l’Italia
fascista che tendeva a risolvere i problemi con soluzioni invasive, e c’è
l’Italia bigotta che invece i problemi li nascondeva sotto al tappeto, o fuori
dalla porta, come è per Gerda, giovanissima, incinta e scacciata, nello stesso
anno in cui Mina partorì il suo, di figlio, e venne allontanata dalla Tv per lo
scandalo. La stessa Italia che, decenni dopo, confina l’omosessualità nel
ghetto e nella vergogna. C’è l’Italia delle bombe, quella delle stragi, della
strategia della tensione.
C’è un mondo, in questo romanzo, un mondo che
non dobbiamo dimenticare.
E c’é tanta
passione nel raccontare, che rende la scrittura avvincente e ti trascina via.
genere: narativa
anno di pubblicazione: 2010
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