Il barone rampante – Italo Calvino -
recensione a cura di Patrizia Zara
Il libro fa parte della celebre "Trilogia degli
Antenati" (Il visconte dimezzato - Il barone rampante - Il cavaliere
inesistente).
Ho riletto "Il barone rampante" a distanza di molti anni e l'ho
trovato ora come allora un capolavoro sia nella trama che nello stile. Una
storia di avventure, leggerezza e libertà.
Ma se allora, giovane fanciulla, mi era piaciuto per l'originalità del
testo, per il coraggio e la determinazione del protagonista che a dodici anni
sale su un albero per non riscendere mai più, rinnegando con tale
gesto non tanto il titolo di duca ma lo stereotipo di questo imposto
dalla società, oggi mi riporta in mente un episodio della mia infanzia che mi
accomuna in parte allo stravagante protagonista.
Mi trovo in classe, terza elementare.
Sono seduta nella prima fila in un banco a due. La nostra unica maestra conosce
la classe da due anni, anzi presumo conosca ognuno di noi.
Una mattina la mia compagna di banco mi chiede qualcosa e io rispondo ma
lei continua a parlare sottovoce, un brusio fastidioso, non le do retta rimango
attenta alla spiegazione dell'insegnante.
Ad un tratto la maestra si ferma e con tono infastidito pronunzia il mio nome a
voce alta intimandomi di stare zitta. Cerco di chiarire l'equivoco ma ciò porta
a peggiorare la situazione.
Vengo invitata a prendere il quaderno e andare nell'ultima fila, in un banco
solitario.
Ricordo che ero molto arrabbiata per l'ingiustizia subita, io che non parlavo
mai durante le lezioni.
Bene, da quel giorno io da quell'ultimo banco non mi sono più mossa se
non quando la campanella avvisava l'uscita.
Trasferii la mia cartella, tutti i miei quaderni, le penne blu e rosse e le
matite. Tutto lì, in quel banco solitario.
Nessuno riuscì a farmi cambiare idea, né la maestra che mi chiese scusa, né
i miei compagni, né i miei genitori. La definirono una stravaganza della
giovane età che sarebbe passata in pochi giorni.
Rimasi lì anche per i rimanenti due anni.
In quell'ultimo banco, con le spalle poggiate al muro, io trovai la mia
dimensione, più consona al mio carattere schivo e solitario.
Riuscivo a completare ogni compito prima dell'orario assegnato così d'aiutare
le mie compagne in difficoltà senza essere vista, riuscivo a vedere la
mia classe da una più ampia prospettiva: tutti i volti, tutte le espressioni,
tutto.
Come Cosimo, il protagonista del libro, avevo scelto di stare in solitudine.
Una solitudine voluta che mi permetteva di avere una maggiore visione
della realtà circostante comprendendo meglio i meccanismi di quel mio piccolo
mondo ed esserne partecipe senza distrazioni; riuscivo, anche, a condividere
meglio le mie sensazioni in quella mezz'ora di ricreazione trovandomi
attorniata da tutte le mie compagne curiose di sapere come me la passavo.
Insomma riuscivo a essere più partecipe, proprio come Cosimo.
Perché la solitudine di Cosimo che decide di vivere fra gli alberi è una
solitudine attiva contrariamente a quel "Passero solitario"
leopardinano, triste e nostalgico, che immagina "l'infinito" oltre il
caro colle e che non riuscirà mai ad attraversare.
Cosimo è interessato al suo tempo, è una presenza attiva pur vivendo tra
gli alberi, e va oltre quel colle, vivendo la storia, l'amore
l'amicizia, scoprendo nuove realtà.
Cosimo sceglie di vivere lontano dalle contaminazioni sociali per agire con la
libertà di azione e di pensiero, non smarrendosi mai in rimpianti e nostalgie,
rimanendo fedele a se stesso fino alla fine.
Una fiaba? Certo, se ne fai della tua vita un capolavoro!
Un libro da leggere senza ombra di dubbio.
"Non ci può essere amore se non si è se stessi con tutte le proprie
forze"
genere: narrativa
anno di pubblicazione: 1957
Nessun commento:
Posta un commento