Ossi di seppia - Eugenio Montale -
recensione a cura di Elisa Caccavale
La prima raccolta
montaliana trova ambientazione quasi unicamente nella geografia ligure della
riviera di levante e nel tempo della stagione estiva, stagione vissuta in
bilico tra il ricordo delle estati giovanili e quelle presenti, tra l’età ormai
trascorsa e i rovelli esistenziali della vita adulta. Tra i modelli di Montale
troviamo il D’Annunzio di Alcyone, anche questo diario estivo ma,
rispetto ai temi trattati da D’Annunzio, in Montale non troviamo il rilevante
ruolo dell’estetismo (e della sue illusioni) nel rapporto tra l’uomo e la
natura; nella sezione centrale della raccolta, Mediterraneo, il poeta
dialoga con il mare, elemento fondamentale di questa raccolta, a partire già
dal titolo che richiama l’essenza stessa del mare, che conserva e distrugge,
leviga e annienta. Come un osso di seppia, ricordo di un’esistenza passata ma
ancora presente nel suo simulacro.
Ricchissima nella
raccolta la fenomenologia estatica che ha reso celebre Montale, le espressioni
ormai quasi proverbiali della “maglia rotta nella rete” (In limine), del “segno
di un’altra orbita” (Arsenio), dell’”anello che non tiene” (I limoni) che
narrano della sensazione, che subito svanisce, di poter cogliere, per l’Io
poetico, il senso profondo della vita.
Trova posto in questa
raccolta anche la dichiarazione della poetica del “non” con la celeberrima Non
chiederci la parola che squadri da ogni lato, con la quale Montale si
dichiara adatto a testimoniare una vita priva di certezze e di valori, un autore
lontanissimo dalle figure dei poeti vati del passato, un poeta che sa solo,
socraticamente, ciò che non è e ciò che non vuole.
Come non citare, poi,
l’essenziale e nitida poesia che con le sue metafore è diventata immagine
meravigliosa del concetto del “male di vivere” (Spesso il male di vivere ho
incontrato) in cui il messaggio, l’idea del male di vivere, è affidata a
tre figure concrete (il rivo strozzato, la foglia accartocciata, il cavallo
stramazzato), sublime esempio dell’oggettualità che caratterizza tanta poesia
montaliana (e che si lega al correlativo oggettivo di Thomas Stearns Eliot).
In tutto ciò emerge la
figura della donna, l’unica a potersi porre come mediatrice delle “impossibili
possibilità”, colei che potrebbe cogliere il segno dell’altra orbita; è la
donna conosciuta nelle “estati lontani” di Monterosso (dove Montale aveva una
casa di famiglia) ma adesso assente, Annetta-Arletta, la prima delle tante
donne salvifiche cantate da Montale (Dora Markus, Mosca, Volpe…).
Troppo ancora ci sarebbe
da dire su questo autore, pertanto meglio fermarsi e lasciar spazio alle sue
parole, con la poesia che è il testo montaliano più divulgato: si tratta di uno
dei più tipici paesaggi di Montale, in cui l’ambiente viene presentato con
caratteristiche di aridità, canicola, scabra essenzialità che sono le
caratteristiche salienti del paesaggio di Ossi di seppia. A voi dunque: Meriggiare
pallido e assorto.
Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
genere: poesia
anno di pubblicazione: 1925
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