Un pasto in inverno - H. Mingarelli -
recensione a cura di Rossella Lombardi
La scrittura di questo breve romanzo, che è però molto
intenso, è asciutta, essenziale ma efficace e tagliente. La narrazione ha il
giusto ritmo e porta il lettore ad entrare nella storia, ad empatizzare con i
personaggi, a percepire il grande freddo, l’incertezza, la precarietà e a
domandarsi “ cosa avrei fatto io in
quella situazione ?”
In Polonia, durante la seconda guerra mondiale, tre soldati
tedeschi, per evitare il compito quotidiano ormai insopportabile di fucilare
gli ebrei prigionieri nel campo di concentramento, chiedono e ottengono il
permesso per una missione all’ esterno del campo. Il loro incarico è di stanare
gli ebrei superstiti, nascosti nei boschi e nella campagna circostante. Per
molte ore i tre attraversano faticosamente campi e boschi innevati, sopportando
il vento gelido ed il freddo intenso fuori
e dentro di loro.
Il paesaggio descritto è silenzioso, senza colori: domina il
bianco candido della neve ed il nero dei rami intirizziti e del loro
abbigliamento decisamente insufficiente per il rigore di quell’inverno.
I tre protagonisti hanno ormai instaurato un buon rapporto
fra loro, fatto di condivisione delle fatiche, della sopportazione del dolore
di cui sono spettatori ed artefici. Si raccontano vicendevolmente i pensieri, i
dubbi, i ricordi, gli affetti arrivando addirittura a considerarsi ormai una
famiglia.
Ad un certo punto del cammino trovano un giovane uomo ebreo,
nascosto nel bosco e lo fanno prigioniero. Lungo la strada per tornare al campo
si rifugiano in una piccola casa abbandonata per riposarsi e rifocillarsi. Lì
ospitano anche un vecchio polacco, a caccia con il suo cane, con il quale non
riescono a parlare per via della sua diversa lingua, ma arrivano ad intendersi
sufficientemente.
In questa strana situazione i cinque personaggi fanno
l’esperienza della collaborazione per riuscire a trovare qualcosa per accendere
un fuoco e cucinare una cena improvvisata. Poi sperimentano la condivisione
della zuppa, preparata alla meglio con la neve sciolta, fatta di semolino e
poco altro.
Quindi, salutato il cacciatore e, recuperate le forze, si
avviano per tornare al campo.
E’ allora che uno dei tre soldati fa ai compagni una
proposta sconcertante: lasciare libero l’ebreo aggiungendo “Tutti noi abbiamo
bisogno di questa soluzione, per sapere di averne salvato almeno uno “. Ne
nasce un lungo ed intenso dibattito. Un compagno
gli replica che al campo li aspetta il loro capo che potrebbe premiarli per il
loro “bottino” con una razione più abbondante di cibo e la concessione di un’altra
missione all’esterno del campo. Cosa
decideranno di fare?
Le riflessioni scaturite dalla lettura di questo libro sono
molte.
La guerra non uccide solo persone ma anche l’anima di tutti
gli esseri umani coinvolti che vengono stravolti dagli eventi e che a volte si
trovano a fare cose indicibili.
Io credo che negli esseri umani c’è del bene , spesso
però le circostanze, le esperienze , il
vissuto soffocano quel bene, uccidendo se non il corpo sicuramente la loro anima.
Mi tornano però in mente le parole di Anna Arendt nel suo
libro “La banalità del male” riferite ad Eichmann. La scrittrice sostiene che
questo criminale era un uomo comune, superficiale, e mediocre e che dietro la
mediocrità vi è appunto la banalità del male poiché sono gli individui
banalmente comuni a poter compiere il male.
(Ma allora, poiché tra gli esseri umani oggi la mediocrità
non è rara, anzi è frequente, cosa dobbiamo aspettarci?)
Io non posso credere a questa tesi, anzi non voglio
crederci.
genere: narrativa
anno di pubblicazione: 2014
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