venerdì 28 marzo 2025

UN PASTO IN INVERNO

 




Un pasto in inverno - H. Mingarelli  -

recensione a cura di Rossella Lombardi

 

La scrittura di questo breve romanzo, che è però molto intenso, è asciutta, essenziale ma efficace e tagliente. La narrazione ha il giusto ritmo e porta il lettore ad entrare nella storia, ad empatizzare con i personaggi, a percepire il grande freddo, l’incertezza, la precarietà e a domandarsi  “ cosa avrei fatto io in quella situazione ?”

In Polonia, durante la seconda guerra mondiale, tre soldati tedeschi, per evitare il compito quotidiano ormai insopportabile di fucilare gli ebrei prigionieri nel campo di concentramento, chiedono e ottengono il permesso per una missione all’ esterno del campo. Il loro incarico è di stanare gli ebrei superstiti, nascosti nei boschi e nella campagna circostante. Per molte ore i tre attraversano faticosamente campi e boschi innevati, sopportando il vento gelido ed il freddo intenso fuori   e dentro di loro.

Il paesaggio descritto è silenzioso, senza colori: domina il bianco candido della neve ed il nero dei rami intirizziti e del loro abbigliamento decisamente insufficiente per il rigore di quell’inverno.

I tre protagonisti hanno ormai instaurato un buon rapporto fra loro, fatto di condivisione delle fatiche, della sopportazione del dolore di cui sono spettatori ed artefici. Si raccontano vicendevolmente i pensieri, i dubbi, i ricordi, gli affetti arrivando addirittura a considerarsi ormai una famiglia.

Ad un certo punto del cammino trovano un giovane uomo ebreo, nascosto nel bosco e lo fanno prigioniero. Lungo la strada per tornare al campo si rifugiano in una piccola casa abbandonata per riposarsi e rifocillarsi. Lì ospitano anche un vecchio polacco, a caccia con il suo cane, con il quale non riescono a parlare per via della sua diversa lingua, ma arrivano ad intendersi sufficientemente.

In questa strana situazione i cinque personaggi fanno l’esperienza della collaborazione per riuscire a trovare qualcosa per accendere un fuoco e cucinare una cena improvvisata. Poi sperimentano la condivisione della zuppa, preparata alla meglio con la neve sciolta, fatta di semolino e poco altro.

Quindi, salutato il cacciatore e, recuperate le forze, si avviano per tornare al campo.

E’ allora che uno dei tre soldati fa ai compagni una proposta sconcertante: lasciare libero l’ebreo aggiungendo “Tutti noi abbiamo bisogno di questa soluzione, per sapere di averne salvato almeno uno “. Ne nasce un lungo ed intenso dibattito.  Un compagno gli replica che al campo li aspetta il loro capo che potrebbe premiarli per il loro “bottino” con una razione più abbondante di cibo e la concessione di un’altra missione all’esterno del campo.   Cosa decideranno di fare?

Le riflessioni scaturite dalla lettura di questo libro sono molte.

La guerra non uccide solo persone ma anche l’anima di tutti gli esseri umani coinvolti che vengono stravolti dagli eventi e che a volte si trovano a fare cose indicibili.

Io credo che negli esseri umani c’è del bene , spesso però  le circostanze, le esperienze , il vissuto soffocano quel bene, uccidendo se non il corpo  sicuramente la loro  anima.

Mi tornano però in mente le parole di Anna Arendt nel suo libro “La banalità del male” riferite ad Eichmann. La scrittrice sostiene che questo criminale era un uomo comune, superficiale, e mediocre e che dietro la mediocrità vi è appunto la banalità del male poiché sono gli individui banalmente comuni a poter compiere il male.

(Ma allora, poiché tra gli esseri umani oggi la mediocrità non è rara, anzi è frequente, cosa dobbiamo aspettarci?)

Io non posso credere a questa tesi, anzi non voglio crederci.

genere: narrativa

anno di pubblicazione: 2014

 

 


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