Eredità - Vigdis Hjorth
Recensione a cura di Miriam Donati
“Che nessuno di voi mi abbia mai chiesto della mia storia è qualcosa che ho vissuto e vivo come un grande dolore…”
Eredità è una lunga riflessione sul trauma e la memoria ed è il racconto che fa una donna per sopravvivere e per essere creduta.
La
trama si sviluppa su due linee narrative parallele, presente e passato,
svelando lentamente un terribile segreto di famiglia.
È un romanzo fatto di capitoli brevi, a volte di sole poche righe costellate di
richiami alla letteratura e al teatro che rimandano alla vicenda vissuta.
La
scrittura essenziale e intensa del flusso di pensieri continuo e ininterrotto
della protagonista è fatta di frasi brevi, con continue ripetizioni di parole,
di gesti, ritorni a pensieri già espressi, in un continuo processo di
rielaborazione che, seppur doloroso, dà forma alla presa di coscienza di ciò
che è rimasto a lungo sepolto.
La
forza del romanzo sta in due caratteristiche che sembrano opposte, ma che
insieme compongono le basi di un dramma familiare: il silenzio e
l'ossessiva ripetizione di parole e azioni.
Eredità è un romanzo
che si abbandona al silenzio. Mancano dialoghi diretti e anche le relazioni tra
i personaggi sono fatte di silenzio. Tra di loro preferiscono affidarsi a
messaggi, email e lettere che a volte non vengono aperte, sono cancellate prima
della lettura o vengono travisate. In questa storia la violenza è data dal
silenzio e dalla quieta accettazione di chi sta intorno a questa violenza.
Bergljot, la figlia maggiore e vittima, vive decenni di silenzio, di mancato
riconoscimento del suo trauma. Anzi, il trauma viene sminuito da accuse di
invenzioni fatte per "rendersi interessante" e dallo
storpiamento della tremenda parola che lo accompagna come se la negazione della
parola corretta potesse cancellare quanto accaduto.
La
compensazione di questo silenzio è data dall'ossessiva ripetizione di azioni,
parole, spiegazioni. Di solito nel parlato quotidiano ripetiamo, aggiungiamo,
spieghiamo in maniera a volte confusa. L’autrice si affida a questa scelta
stilistica che, in una spirale continua, nello scorrere delle pagine rende il
flusso concitato e rende concreta l’ossessione di quando un pensiero si appropria
di ogni spazio, rimescola i gesti, sfuma i confini rendendoci così pienamente
partecipi dell'angoscia, dell'affanno e del bisogno di riempire il silenzio con
cui la famiglia ha coperto per decenni la questione.
“Quanto
è terribile constatare che ciò che è stato distrutto diffonde a sua volta
distruzione, e che è così difficile evitarlo…”
L’autrice
racconta con grande efficacia la solitudine, la rabbia e la delusione di una
vittima quando non viene creduta dalla propria famiglia e le conseguenze feroci
che questo rifiuto porta con sé.
Mi
ha molto impressionato la sua capacità di dare spessore al dolore della
protagonista, di rendere i suoi rapporti con i genitori, di raccontare la
personalità, la psicologia complessa e le sfumature ambigue e sottili delle
sorelle e della madre, senza mai dar loro la parola direttamente. Il suo
racconto si sviluppa svelando lentamente, creando una tensione crescente
per capire cosa sia realmente accaduto all’interno della famiglia e la
spinta ad affrontare il nodo cruciale della sua esistenza, condizionata negativamente
anche a distanza di anni, e soprattutto la ricerca di un equilibrio difficile
nel rapporto di coppia che ha cercato di costruire con i suoi partner.
La
resa dei conti familiare sopraggiunge quando entra in gioco l’eredità, alla
morte del padre. Se in passato la volontà paterna si era espressa in una
divisione equa e imparziale tra i quattro figli, emerge che le due case di
vacanza a Hvaler sono invece destinate alle due figlie minori, Astrid e Asa, rimaste
fedeli al culto della famiglia perfetta e armoniosa, escludendo i due figli
maggiori. Si apre una controversia che oltrepassa l’aspetto materiale dell’eredità,
per andare a sconvolgere gli equilibri affettivi tra i fratelli e con la madre,
dando vita a due schieramenti contrapposti.
Se per Bård è difficile fare i conti con l’ingiustizia di cui si ritiene
vittima – in realtà si ricollega a tutta l’indifferenza pregressa nei suoi
confronti da parte soprattutto del padre – la questione si fa in misura
maggiore pesante per Bergljot che ha tagliato i ponti con la famiglia d’origine
già ventitré anni prima, quando la storia era riaffiorata, e aveva dovuto
sottoporsi ad analisi per superare il trauma.
Bergljot,
durante tutto il processo di analisi, si esamina ed esamina i genitori alla
luce della loro relazione disfunzionale: il desiderio ossessivo di controllo del
padre ha costretto la madre a vederla come una rivale sessuale con delle
modalità aberranti. Ciò che più ha fatto soffrire Bergljot e che ha determinato
il definitivo allontanamento dalla famiglia è il fatto di non essere stata
creduta. Solo il fratello è solidale con lei perché anche lui ha provato la
violenza in forma di botte e di indifferenza totale.
Parte
di ciò che rende questo libro così straordinario è la consapevolezza di
Bergljot del dolore che la circonda, incluso quello delle persone che hanno
causato il suo stesso dolore. La sua sofferenza non fa nulla per negare la
loro e non toglie la sua capacità di testimoniarla. Non cerca di mostrare i
suoi genitori e le sue due sorelle peggiori di quello che sono, ma lascia che
sia il lettore a giudicare la loro condotta e spesso tra le sue parole si
percepiscono delusione, terrore, rimorso, paura, ma mai solo rabbia
distruttiva.
Asa
preferisce attraverso l’indifferenza e l’ostilità verso Bergliot, retaggio
della gelosia e invidia infantili, non prendere nemmeno in considerazione la
possibilità di crederle, mentre Astrid si trincera dietro una supposta
obiettività, si compiace di essere ponte tra le parti, non prendere posizione,
ma in effetti, la prende, eccome; è il personaggio più complesso e
contradditorio e meglio approfondito insieme a quello della madre. Forse più
raccapricciante della madre stessa nella sua ostinata e simulata oggettività.
Tagliare
drasticamente i legami fondamentali è lacerante; è inevitabile che il dolore porti
alla disperazione, ma la famiglia è davvero un porto sicuro? È quel luogo
solido che dovrebbe arginare dai pericoli?
Unica
pecca del libro la lunghezza; personalmente ritengo che una sforbiciata di un
centinaio di pagine avrebbe giovato ancora di più alla storia e all’eccellente impianto
narrativo concepito dalla Hjorth.
Genere narrativa
Anno di pubblicazione 2020
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