La città e i cani - Mario Vargas Llosa
Recensione a cura di Miriam Donati
“Al
mondo la violenza è una sorta di fatalità. In un Paese sottosviluppato come il
mio, la violenza è esteriore, epidermica, è presente in ogni momento della vita
individuale, è la radice di tutti i rapporti umani.”
Questa
la risposta del Premio Nobel a chi, al momento della pubblicazione, gli
chiedeva se La ciudad y los perros – bruciato in piazza dai
militari, considerato dalla critica il migliore tra i suoi romanzi, – fosse un
romanzo “sulla violenza”. E la violenza, non solo fisica, fa da sfondo al
microcosmo del Collegio Leoncio Prado di Lima dove avviene l'educazione
dei protagonisti. Un collegio retto da militari in cui confluiscono sia i figli
delle classi inferiori ammessi per merito sia quelli delle classi alte mandati lì
dalle famiglie nella speranza di domarli, e dove la sopraffazione, la forza
bruta, il dispotismo sono le leggi della convivenza, a dispetto di regolamenti
e norme.
Con
La città e i cani che è il suo primo romanzo, pubblicato in Spagna
nel 1963, Vargas Llosa racconta un paese intero, il Perù, profondamente diviso
tra regioni, etnie e culture differenti. E lo fa attraverso l’intuizione di
ambientare la narrazione al Leoncio Prado: un collegio militare di Lima
in cui lo scrittore stesso aveva studiato, un ambiente violento, maschilista,
crudele, un vero e proprio inferno dove il giovane Mario si era ritrovato per
la prima volta con compagni che rappresentavano tutte le diversità che componevano
e compongono il suo paese.
È
un libro che parla della violenza insita nel cuore umano e nell'ambiente
sociale, nell'apparato educativo scolastico e nei rapporti familiari, nella
sessualità e nelle schermaglie amorose tra uomini e donne. La vicenda ruota
intorno ai giovani cadetti che frequentano il collegio militare, costretti a
una disciplina durissima e ottusa, a esercitazioni massacranti, vessati da
sopraffazioni continue da parte di commilitoni, sorveglianti e superiori. Adolescenti
di una stessa camerata, ragazzi di
estrazione sociale diversa, bianchi, neri, mulatti, indios, ragazzi provenienti
dalla costa, dalla montagna (i cosiddetti serranos), che
devono superare sia i rituali di iniziazione imposti loro dagli allievi più
grandi (scherzi osceni, umiliazioni, pestaggi, furti), sia le corvée delle
marce e delle manovre, delle punizioni fisiche, delle consegne in isolamento.
In questo clima di rigore disumano, i ragazzi tentano una loro resistenza
individuale e collettiva, fatta di violenze contro i più deboli, di fughe dal
collegio, di ruberie e di esibizioni sessuali al limite della depravazione. Tra
di loro si chiamano con soprannomi allusivi: Boa, Giaguaro, Chiavica, Schiavo.
e Alberto, definito “il poeta” perché in grado di scrivere lettere d’amore e
storielle pornografiche da vendere ai compagni.
È
un romanzo corale, che usa sapientemente diverse prospettive di narrazione,
alternando capitoli in prima e in terza persona, dialoghi, monologhi, brani
diaristici, descrizioni paesaggistiche e confessioni personali con la tecnica
del flusso di coscienza.
La narrazione è crudele, molto dura, violenza richiama
violenza, e per tutta la lettura si respira uno stato costante di allerta,
tensione e spaesamento, come quello che dovevano provare i protagonisti. I
continui salti temporali creano sensazioni e aspettative contrastanti che
arricchiscono le storie personali dei protagonisti e aumentano l'empatia e
l'interesse per tutti loro.
Un
romanzo straordinario, per tecnica e argomento, in cui nulla è scontato e tutto
può accadere in un graduale avvicendarsi di circostanze e sentimenti che
portano all’epilogo grandioso.
Superando
le prime cinquanta pagine, dove si fatica riconoscere i personaggi ed entrare
nel racconto, si aprono le porte di un grandissimo romanzo che scava dentro con
la sua intensità e con una violenza emotiva e verbale disturbante, come una
barriera che il lettore deve oltrepassare a fatica per calarsi in un inferno
squarciato da esplosioni di colore, di pura poesia e anche di romanticismo.
Romanzo
anche sociologico, è un pesante atto di denuncia verso le istituzioni: scuola
militare e famiglia. Poiché anche il ragazzo peggiore ha una sua purezza di
fondo che viene fuori andando avanti con la lettura, il romanzo sembra
suggerire l’idea che ogni ragazzo in un ambiente del genere potrebbe essere
vittima o carnefice. Questo si vede nella figura di Alberto, alter ego
dell’autore, che ha un rapporto schizofrenico con l’ambiente: sa stare con il
debole ma anche con i prepotenti.
Sono
tutti vittime e carnefici in uno scontro di sensibilità, vigliaccheria, forza
bruta che si conclude in tragedia. Vittima è anche l'unico educatore
intelligente e responsabile, che paga con un trasferimento punitivo la sua onestà.
Nemmeno l'esistenza fuori dal collegio risulta aliena da difficoltà per i
cadetti, sia nei rapporti con i vecchi amici rimasti a vivere di espedienti nei
quartieri più poveri, sia nelle famiglie sfasciate che non li accolgono
volentieri durante le licenze, sia nei tentativi abortiti di esperienze amorose
o nel sesso vissuto squallidamente. La figura femminile della ragazza orfana
Teresa, fulcro esterno della vicenda, restituisce l’umanità e la dignità andate
perdute. E sarà Alberto a tentare un riscatto in una nuova vita di cui essere
l'unico padrone. Capolavoro.
Genere narrativa
Anno di pubblicazione 1963
In italiano versione Einaudi 2016
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