L’interprete - Annette Hess
Recensione a cura di Miriam Donati
Eva
Bruhns, giovane traduttrice di polacco nella Francoforte del 1963, solita tradurre
contratti, controversie economiche e cause legali per risarcimenti danni, è
chiamata dalla Procura a sostituire l’interprete ufficiale in una urgente
sessione di preparazione a un processo. Si ritrova a tradurre per due
procuratori le parole dell’anziano contadino Josef Gabor che parla un dialetto
di campagna e che racconta di baracche, campi di reclusione, prigionieri
asfissiati con il gas nel 1941. Quando torna al ristorante di famiglia “Deutsches
Haus” - Casa tedesca (che è anche il titolo originale del libro), sconcertata e
piena di domande per quanto appreso, scopre i genitori riluttanti a parlarne e
il fidanzato, Jurgen, contrario a che lei assuma l’incarico in modo definitivo
in quanto inadatto a una fanciulla in procinto di sposarsi e che non necessita
di lavorare in quanto al suo mantenimento penserà lui.
Eva
però accetta il lavoro e farà da interprete ai testimoni polacchi durante il
processo che Franz Bauer, procuratore generale di Francoforte intenta ad alcuni
membri del personale del campo di Auschwitz. A partire da quel momento Eva si troverà a
fare i conti con la propria inadeguatezza, con i familiari che l’accusano di
voler sapere troppo e con le figure processuali che la disprezzano perché non
sa nulla. Emblema di una generazione, figlia del boom economico che cerca di
seppellire il passato, scopre la Shoah e i crimini perpetrati dai nazisti,
taciuti e rimossi omertosamente per il quieto vivere.
Ascoltando
le sconvolgenti testimonianze dei sopravissuti, Eva si rende conto che i
colpevoli non sono solo quelli diretti ma anche quelli che hanno collaborato o
hanno taciuto rendendo possibile l’inferno dei campi di concentramento.
Pagina
dopo pagina il suo carattere e le sue idee si evolvono facendole fare un vero e
proprio salto verso l’emancipazione e facendo emergere il suo lato ribelle. La
docile e rispettosa Eva con ostinazione, forza e determinazione sceglie la
propria strada e rinuncia, almeno fino a prima del finale, al fidanzato che
vorrebbe lei lasciasse il proprio lavoro e volta le spalle alla famiglia che
ritiene indiretta complice dello sterminio.
Il
personaggio di Eva basterebbe da solo a reggere l’intero libro, è ben
delineato, con il suo passato, le sue fragilità, le sue paure e la sua
rivendicazione per l’indipendenza, per la libertà di scelta e per avere una
propria “voce”.
Peccato
il romanzo si perda, dopo un inizio coinvolgente, nelle sotto trame che
rallentano il ritmo e distolgono troppo dal tema principale. Mi sarei aspettata
più spazio per le testimonianze e meno per gli altri personaggi che hanno tutti
qualcosa da nascondere e i cui comportamenti trovano spiegazione solo alla fine
e in modo, secondo me, frettoloso. Un esempio per tutti la condotta
schizofrenica e criminale della sorella di Eva nei confronti dei neonati a lei
affidati. Comportamento dovuto alla negazione di quanto accaduto ad Auschwitz o
al trauma di doverlo nascondere?
L’autrice
sottolinea la disputa appassionata sorta tra l’opinione pubblica tedesca, per
cui una parte aveva vissuto e continuava a vivere senza compromettersi con il
solo obiettivo di dimenticare, incapace di far fronte alle proprie
responsabilità e un’altra parte, invece, che se le voleva assumere in toto.
Il
processo di Francoforte in realtà fu un processo nel processo: da una parte
quello prettamente giuridico del Procuratore Bauer contro gli imputati,
dall’altra un processo sociale contro la negazione e l’indifferenza di
un’intera nazione. Fu il momento della riflessione sui conti mai fatti dalla
popolazione tedesca sul proprio passato nazista che produsse una discussione
generale alla fine liberatoria.
Quello
che resta alla chiusura dell’ultima pagina è soprattutto una riflessione sulla
responsabilità. I colpevoli sono solo quelli che compiono concretamente il
male? Oppure voltare la testa dall’altra parte, fingere di non vedere per non
rischiare in prima persona è una forma di colpa? Una domanda che ha valore
anche nel nostro presente. Schierarsi a volte non è facile, vuol dire correre
dei rischi.
A
proposito del male inoltre c’è da chiedersi se non siamo tutti colpevoli. Sotto
una patina di bontà nascondiamo anime nere? Un refrain riproposto da libri
letti negli ultimi tempi da La città dei vivi di Nicola La Gioia a Continente
Bianco di Andrea Tarabbia.
Genere
Narrativa
Anno di pubblicazione
2018
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