giovedì 9 maggio 2024

L'INTERPRETE

 




L’interprete Annette Hess

Recensione a cura di Miriam Donati

 

Eva Bruhns, giovane traduttrice di polacco nella Francoforte del 1963, solita tradurre contratti, controversie economiche e cause legali per risarcimenti danni, è chiamata dalla Procura a sostituire l’interprete ufficiale in una urgente sessione di preparazione a un processo. Si ritrova a tradurre per due procuratori le parole dell’anziano contadino Josef Gabor che parla un dialetto di campagna e che racconta di baracche, campi di reclusione, prigionieri asfissiati con il gas nel 1941. Quando torna al ristorante di famiglia “Deutsches Haus” - Casa tedesca (che è anche il titolo originale del libro), sconcertata e piena di domande per quanto appreso, scopre i genitori riluttanti a parlarne e il fidanzato, Jurgen, contrario a che lei assuma l’incarico in modo definitivo in quanto inadatto a una fanciulla in procinto di sposarsi e che non necessita di lavorare in quanto al suo mantenimento penserà lui.

Eva però accetta il lavoro e farà da interprete ai testimoni polacchi durante il processo che Franz Bauer, procuratore generale di Francoforte intenta ad alcuni membri del personale del campo di Auschwitz.  A partire da quel momento Eva si troverà a fare i conti con la propria inadeguatezza, con i familiari che l’accusano di voler sapere troppo e con le figure processuali che la disprezzano perché non sa nulla. Emblema di una generazione, figlia del boom economico che cerca di seppellire il passato, scopre la Shoah e i crimini perpetrati dai nazisti, taciuti e rimossi omertosamente per il quieto vivere.

Ascoltando le sconvolgenti testimonianze dei sopravissuti, Eva si rende conto che i colpevoli non sono solo quelli diretti ma anche quelli che hanno collaborato o hanno taciuto rendendo possibile l’inferno dei campi di concentramento.

Pagina dopo pagina il suo carattere e le sue idee si evolvono facendole fare un vero e proprio salto verso l’emancipazione e facendo emergere il suo lato ribelle. La docile e rispettosa Eva con ostinazione, forza e determinazione sceglie la propria strada e rinuncia, almeno fino a prima del finale, al fidanzato che vorrebbe lei lasciasse il proprio lavoro e volta le spalle alla famiglia che ritiene indiretta complice dello sterminio.

Il personaggio di Eva basterebbe da solo a reggere l’intero libro, è ben delineato, con il suo passato, le sue fragilità, le sue paure e la sua rivendicazione per l’indipendenza, per la libertà di scelta e per avere una propria “voce”.

Peccato il romanzo si perda, dopo un inizio coinvolgente, nelle sotto trame che rallentano il ritmo e distolgono troppo dal tema principale. Mi sarei aspettata più spazio per le testimonianze e meno per gli altri personaggi che hanno tutti qualcosa da nascondere e i cui comportamenti trovano spiegazione solo alla fine e in modo, secondo me, frettoloso. Un esempio per tutti la condotta schizofrenica e criminale della sorella di Eva nei confronti dei neonati a lei affidati. Comportamento dovuto alla negazione di quanto accaduto ad Auschwitz o al trauma di doverlo nascondere?

L’autrice sottolinea la disputa appassionata sorta tra l’opinione pubblica tedesca, per cui una parte aveva vissuto e continuava a vivere senza compromettersi con il solo obiettivo di dimenticare, incapace di far fronte alle proprie responsabilità e un’altra parte, invece, che se le voleva assumere in toto.

Il processo di Francoforte in realtà fu un processo nel processo: da una parte quello prettamente giuridico del Procuratore Bauer contro gli imputati, dall’altra un processo sociale contro la negazione e l’indifferenza di un’intera nazione. Fu il momento della riflessione sui conti mai fatti dalla popolazione tedesca sul proprio passato nazista che produsse una discussione generale alla fine liberatoria.

Quello che resta alla chiusura dell’ultima pagina è soprattutto una riflessione sulla responsabilità. I colpevoli sono solo quelli che compiono concretamente il male? Oppure voltare la testa dall’altra parte, fingere di non vedere per non rischiare in prima persona è una forma di colpa? Una domanda che ha valore anche nel nostro presente. Schierarsi a volte non è facile, vuol dire correre dei rischi.  

A proposito del male inoltre c’è da chiedersi se non siamo tutti colpevoli. Sotto una patina di bontà nascondiamo anime nere? Un refrain riproposto da libri letti negli ultimi tempi da La città dei vivi di Nicola La Gioia a Continente Bianco di Andrea Tarabbia.

 

Genere Narrativa

Anno di pubblicazione 2018


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