Il cuore delle cose - Natsume Soseki
Recensione
a cura di Miriam Donati
Nel
Giappone di un tempo era frequente che le persone scegliessero ed eleggessero un
"sensei”, cioè un maestro di vita, non necessariamente un insegnante vero.
Ed è quello che fa il protagonista di questo romanzo. Egli lo riconosce al primo
sguardo. La loro relazione procede delicata come i fiori di
ciliegio. Ogni parola concorre a svelare ma, al contempo, suggerisce di non
fare troppe domande e la narrazione procede lieve e con un ritmo sereno.
Come nella pittura in
stile mokkotsu (senza contorni, definita solo dai colori) i personaggi non
hanno nome, sono perfettamente definiti dalle loro personalità che vengono così a trasformarsi in archetipi,
Il “Maestro”, colto,
raffinato e sensibile ama discorrere e apprezza la compagnia del giovane ma un
curioso pudore lo frena. Il giovane, pur frequentandolo, non riesce né a
stabilire quale sia la sua occupazione né a comprendere i molti riferimenti e
le oscure intenzioni che il suo interlocutore a volte esprime. Tuttavia si creerà un legame forte, più forte forse
proprio in virtù delle cose non dette.
Per lo studente il
fascino del “Maestro” è irresistibile, soprattutto paragonando la sua cultura e
i suoi modi cittadini con quelli dei propri genitori, gente di campagna, la cui
attenzione si esprime più con le azioni, che con le parole.
Il giovane discepolo
tenterà diverse volte di dipanare la nebbia relativa al passato del suo
maestro, ma non otterrà mai risposta alle sue domande, ricavandone solo decisi
rifiuti.
La frattura nella vita
del protagonista sarà improvvisa e completa. Prima la malattia del padre e poi
il mistero svelato e la sorte del “Maestro”, raccontata in una lunghissima
lettera che occupa per intero la seconda parte del romanzo, porranno fine alle
illusioni della giovinezza.
Il “Maestro” nella
lettera – quasi un testamento – rivela se stesso e mostra quanto sia effimera
l’esistenza in una società ormai adagiata sulle comodità, sull’agiatezza e
sulla sicurezza.
Il suo appartarsi, le sue
abitudini monacali indicano che la solitudine “è il prezzo che dobbiamo pagare per essere nati in questa epoca
moderna, così piena di libertà, indipendenza, ed egoistica affermazione
individuale”. Che, nonostante gli
sforzi, non ci sarà mai un completo appagamento; l’uomo sarà comunque un essere
insoddisfatto, solo in mezzo a tanti, che tenta di vedere nei suoi atti senza
riuscirci nientemeno che il senso della vita. Il cuore delle cose.
Difficile conservare per
il giovane l’innocenza dello sguardo e la fiducia nel futuro. Il mondo non ha pazienza
né pietà e la geniale costruzione concentrica del romanzo lo conferma, età dopo
età si è chiamati ad accettare se non lo spegnersi, lo sbiadire dei sogni. Cercare
pertanto di trovare il senso della vita può voler dire rimanere con il dubbio
che non ci sia e l’estrema attenzione di Sôseki per questo concetto nasce
probabilmente dalla sua storia personale, raccontata nell’introduzione di Gian
Carlo Calza (Sôseki: la solitudine come arte) che è anche il
traduttore del libro.
Anno di pubblicazione 1914
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