giovedì 4 gennaio 2024

IL LIBRO DEL BUIO

 





Il libro del buio - Tahar Ben Jelloun

Recensione a cura di Miriam Donati

 

 “La notte ci vestiva. In un altro mondo, si sarebbe detto che era piena di attenzione per noi. Nessunissima luce. Mai il benché minimo filo di luce. Ma i nostri occhi, pur avendo perso lo sguardo, si erano adattati. Vedevamo nelle tenebre, o credevamo di vedere.”

 Il 10 luglio 1971 un commando militare irrompe nella residenza estiva del re a Shirate, in Marocco. Il colpo di stato fallisce. I soldati che hanno preso parte alla missione vengono richiusi in una prigione sotterranea, sepolti nelle tenebre per diciotto anni.

Il libro del buio parte da una delle pagine più tragiche della storia del Marocco.

La narrazione si basa sulla testimonianza di un ex recluso di Tazmamart, una prigione segreta marocchina per prigionieri politici, caratterizzata da condizioni estremamente dure.

È un libro amaro, angosciante nella descrizione della prigionia vissuta nel più completo abbandono e senza alcuna speranza, una testimonianza di come si possa negare l'esistenza stessa dell'individuo, in una totale “accecante assenza di luce” (titolo originale del libro).
Il protagonista, come i suoi compagni, isolato fisicamente e psicologicamente cerca una via per sopravvivere e riesce a individuarla imparando, per non provare sofferenza, a guardarsi dal di fuori senza ricordi né sogni o desideri, per evitarne la corrosione dell’anima e si affida alla preghiera.
Ho iniziato la lettura lentamente, condividere con i protagonisti i lunghi anni della prigionia e cogliere l'angosciante durezza della loro situazione non è stato facile. Poi però ho accelerato in modo inconsapevole perché mi mancava l’aria e la luce come ai personaggi del libro, ho cercato un senso al loro viaggio interiore, una difesa dalla follia mutuata dall’oscurità.

Mi sono chiesta: io ce l'avrei fatta? No, ma l'istinto di sopravvivenza è forte e può sorprendere.
Quindi: manca la luce, manca l'aria, manca lo spazio e fa freddo. I corpi cedono e la mente è minacciata dalla follia. La resistenza è dunque fatte di piccole strategie per resistere. I prigionieri si assegnano pertanto dei ruoli: Karim è il tempo, Gharbi è la guida spirituale, Salim il narratore.
Wakrine, lo specialista in scorpioni. Solo ad Achar, il malvagio del gruppo, non è dato alcun compito. Il narratore, Salim, adotta l'arma dell'immaginazione. Raccontando ai compagni libri e film solleva le loro menti bisognose di evadere con Papa Goriot, I Miserabili, Lo straniero, film americani in bianco e nero degli anni Quaranta, poesie arabe e francesi e novelle tratte da Le mille e una notte.

L’autore usa una scrittura che si nutre e riflette la tradizione orale marocchina. La forma quasi lirica e il ricorso alla ripetizione ricordano i cantastorie.
E come i cantastorie Tahar Ben Jelloun recupera, conserva e protegge episodi che altrimenti sarebbero stati dimenticati se non addirittura negati e lo racconta con intensa
emotività non dimenticando come la storia si ripeta quando si vuole cancellare l’accaduto negandolo. “Ah, eliminare le tracce dell'orrore! I diritti umani? Peggio dell'orrore subito è la sua negazione”.

La libertà desiderata e insperata alla fine si rivela essere dolce e amara nel contempo, perché la vita reale non ha più nulla di vero per Salim: "Ero uno straniero smarrito in un mondo in cui non riconoscevo niente e nessuno." Una condizione che ricorda gli scampati ai lager che, al loro ritorno, per andare avanti non vollero per anni parlare di quanto subito.

Capolavoro.


Genere: Narrativa

Anno di pubblicazione: 2001


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