Il libro del buio - Tahar Ben Jelloun
Recensione a cura di Miriam Donati
Il
libro del buio parte da una delle pagine più tragiche della storia del Marocco.
La
narrazione si basa sulla testimonianza di un ex recluso di Tazmamart, una prigione segreta marocchina
per prigionieri politici, caratterizzata da condizioni estremamente dure.
È
un libro amaro, angosciante nella descrizione della prigionia vissuta nel più completo
abbandono e senza alcuna speranza, una testimonianza di come si possa negare l'esistenza
stessa dell'individuo, in una totale “accecante assenza di luce” (titolo originale del
libro).
Il protagonista, come i suoi compagni, isolato fisicamente e psicologicamente
cerca una via per sopravvivere e riesce a individuarla imparando, per non
provare sofferenza, a guardarsi dal di fuori senza ricordi né sogni o desideri,
per evitarne la corrosione dell’anima e si affida alla preghiera.
Ho iniziato la lettura lentamente, condividere con i protagonisti i lunghi anni
della prigionia e cogliere l'angosciante durezza della loro situazione non è
stato facile. Poi però ho accelerato in modo inconsapevole perché mi mancava
l’aria e la luce come ai personaggi del libro, ho cercato un senso al loro
viaggio interiore, una difesa dalla follia mutuata dall’oscurità.
Mi sono
chiesta: io ce l'avrei fatta? No, ma l'istinto di sopravvivenza è forte e può sorprendere.
Quindi: manca la luce, manca l'aria, manca lo spazio e fa freddo. I corpi cedono
e la mente è minacciata dalla follia. La resistenza è dunque fatte di piccole
strategie per resistere. I prigionieri si assegnano pertanto dei ruoli: Karim è
il tempo, Gharbi è la guida spirituale, Salim il narratore. Wakrine, lo
specialista in scorpioni. Solo ad Achar, il malvagio del gruppo, non è dato
alcun compito. Il
narratore, Salim, adotta l'arma dell'immaginazione. Raccontando ai compagni
libri e film solleva le loro menti bisognose di evadere con Papa Goriot,
I Miserabili, Lo straniero,
film americani in bianco e nero degli anni Quaranta, poesie arabe e francesi e
novelle tratte da Le mille e una notte.
L’autore usa
una scrittura che si nutre e riflette la tradizione orale marocchina. La forma
quasi lirica e il ricorso alla ripetizione ricordano i cantastorie.
E come i cantastorie Tahar Ben Jelloun recupera, conserva e protegge episodi
che altrimenti sarebbero stati dimenticati se non addirittura negati e lo
racconta con intensa emotività
non dimenticando come la storia si ripeta quando si vuole cancellare l’accaduto
negandolo. “Ah,
eliminare le tracce dell'orrore! I diritti umani? Peggio dell'orrore subito è la sua
negazione”.
La
libertà desiderata e insperata alla fine si rivela essere dolce e amara nel
contempo, perché la vita reale non ha più nulla di vero per Salim: "Ero
uno straniero smarrito in un mondo in cui non riconoscevo niente e
nessuno." Una condizione che
ricorda gli scampati ai lager che, al loro ritorno, per andare avanti non
vollero per anni parlare di quanto subito.
Capolavoro.
Genere: Narrativa
Anno
di pubblicazione: 2001
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