Le
assaggiatrici - Rosella Postorino
Recensione di Miriam Donati
Ispirandosi
alla storia vera di Margot Wölk (assaggiatrice di Hitler nella caserma di
Krausendorf), l’autrice racconta la vicenda di Rosa Sauer, costretta, con
un'altra decina di donne di Gross-Partsch, un villaggio molto vicino alla “Tana
del Lupo”, il quartier generale di Hitler nascosto nella foresta, a diventare
assaggiatrice dei cibi destinati al Führer.
Siamo
nel 1943 e Rosa è una giovane moglie trasferitasi da Berlino nella Prussia
orientale; abita a casa dei suoceri nell’attesa di notizie del marito Gregor,
partito per servire la Germania in guerra e, da questo obbligo che le viene
imposto la sua vita cambierà.
Il
rituale da cavie umane si ripete ogni giorno: dopo aver consumato i cibi
preparati per il Führer, devono attendere almeno un’ora per verificare la
mancanza di un eventuale veleno nel cibo ingerito. Sono donne privilegiate
perché possono mangiare tutti i giorni quando fuori dalla caserma si soffre la
fame, in realtà sono solo "oggetti d’esperimento”.
Nonostante la convivenza forzata, tra di loro, non si instaura molta solidarietà
femminile sia per mentalità, sia per cultura politica. Per le altre Rosa è la
“berlinese”, le è difficile ottenere amicizia, eppure si sorprende a cercarla.
Specialmente con Elfriede, la ragazza che si mostra più ostile, la più
carismatica. Poi, nella primavera del 1944, in caserma arriva il tenente
Ziegler e instaura un clima ancora più rigido. Mentre iniziano a pervenire le
prime cattive notizie sull’andamento della guerra nei vari fronti, fra Ziegler
e Rosa si crea un legame impensabile.
Rosella Postorino penetra nell’ambiguità delle relazioni e degli istinti per
chiedersi che cosa significhi essere, e rimanere, umani.
L’autrice
in alcune parti della storia romanzata è riuscita a rendere l'idea della
crudeltà di questo tipo di "lavoro" con realtà e in modo
naturalistico. Ci sono alcuni brani del romanzo che fanno rabbrividire e
inorridire. La sua scrittura è scorrevole, lineare con qualche accelerazione o
rallentamento per creare ritmo e si notano alcune scelte lessicali non
scontate, descrizioni visive personali ma funzionali e incisive come: corpo avaro ed elastico, faccia cremosa,
volto sassoso.
Ho
trovato l’idea iniziale riferita a questa ulteriore crudeltà del regime nazista
che non conoscevo e rivelatasi quindi per me particolarmente interessante, vincente
e attrattiva e l’ambientazione storico/geografica è ben fatta, ma ci sono
troppi elementi anche storici inseriti sullo sfondo della narrazione senza sufficiente
approfondimento che distolgono dal plot principale e sono poche le conseguenze
dirette nelle vite quotidiane delle assaggiatrici; in sostanza, mentre la
sinossi sembra sottintendere che si trovino costrette a scegliere tra una morte
per stenti e del cibo potenzialmente avvelenato, in realtà nessuna di loro
intraprende questo lavoro per scelta: vengono infatti costrette dai militari e
non si comprende la decisione dell’autrice nell’aver evidenziato nel testo il
disprezzo che le SS nutrono per queste donne che sono a tutti gli effetti delle
cittadine tedesche.
Dopo l’arrivo del tenente Ziegler la storia ha una svolta rosa, da un lato
possibile e anche prevedibile, ma dall’altro, troppo dominante sull’intera
vicenda. Mi rendo conto che la vita debba andare avanti e che trattando di
donne giovani, fosse necessario indagare anche nella loro vita sentimentale e
sessuale, l'autrice però indugiando troppo su questo aspetto, ha messo in
secondo piano il fulcro principale: la paura, l'incertezza, quella lunga ora da
trascorrere in attesa che l'eventuale veleno facesse effetto, il desiderio che
quel boccone fosse quello decisivo e che il pasto successivo non fosse più
qualcosa da attendere con orrore. Forse è a causa di questo che ho fatto fatica
a simpatizzare con la protagonista e con le sue ragioni.
Ci
sono alcuni personaggi secondari che avrebbero meritato un approfondimento,
come Elfriede e la Baronessa von Mildernhagen, che presentano, in nuce, molti
lati singolari per le caratteristiche psicologiche del “doppio” che rappresentano.
“Doppio” che caratterizza anche la protagonista e il suo ruolo all'interno del
libro. L’autrice ne evidenzia infatti la doppia condizione di vittima e
colpevole in modo reale. Il filo conduttore è il senso di colpa. È il
sentimento che si porta dentro, fin da bambina, per aver morso la mano del
fratello. E poi da adulta, per la sua condizione di privilegiata che si nutre,
a differenza del resto del popolo che soffre la fame, per la sua relazione con
Ziegler, per non essersi opposta alla vicenda che riguarda Elfriede. Inoltre il
fatto che provenga da una famiglia che disapprova esplicitamente il regime
nazista, tanto che il padre non perde occasione per disprezzarlo e anche lei
sia contraria a tutto questo, farebbe supporre una sua maggiore presa di
posizione, ma la paura di ribellarsi e l’istinto di sopravvivenza la spingono
ad accettare la situazione e a rassegnarsi a quella che è la sua nuova vita e
seguire passivamente le decisioni altrui. L’autrice probabilmente voleva creare
un parallelo con il popolo tedesco nel suo insieme e sottolineare la capacità
di adattamento come maggiore risorsa dell’essere umano.
Della
parte rosa ho apprezzato le riflessioni sulla solitudine amorosa in tempo di
guerra.
“Eravamo
donne senza uomini. Tutte avevamo bisogno di essere desiderate perché il
desiderio degli uomini ti fa esistere di più. Ogni donna lo impara da giovane.
Ti accorgi di quel potere quando è ancora troppo presto per maneggiarlo. Non lo
hai conquistato, perciò può diventare una trappola.”
Nel
finale, mirabile, si compendia tutto l'orrore vissuto da queste donne, il danno
che è stato fatto loro, l'impossibilità di cancellare con un colpo di spugna
quella che in fin dei conti è stata una vera e propria tortura.
Anno
di pubblicazione 2021
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