martedì 30 gennaio 2024

OSSI DI SEPPIA

 





Ossi di seppia - Eugenio Montale -

recensione a cura di Elisa Caccavale


La prima raccolta montaliana trova ambientazione quasi unicamente nella geografia ligure della riviera di levante e nel tempo della stagione estiva, stagione vissuta in bilico tra il ricordo delle estati giovanili e quelle presenti, tra l’età ormai trascorsa e i rovelli esistenziali della vita adulta. Tra i modelli di Montale troviamo il D’Annunzio di Alcyone, anche questo diario estivo ma, rispetto ai temi trattati da D’Annunzio, in Montale non troviamo il rilevante ruolo dell’estetismo (e della sue illusioni) nel rapporto tra l’uomo e la natura; nella sezione centrale della raccolta, Mediterraneo, il poeta dialoga con il mare, elemento fondamentale di questa raccolta, a partire già dal titolo che richiama l’essenza stessa del mare, che conserva e distrugge, leviga e annienta. Come un osso di seppia, ricordo di un’esistenza passata ma ancora presente nel suo simulacro.

Ricchissima nella raccolta la fenomenologia estatica che ha reso celebre Montale, le espressioni ormai quasi proverbiali della “maglia rotta nella rete” (In limine), del “segno di un’altra orbita” (Arsenio), dell’”anello che non tiene” (I limoni) che narrano della sensazione, che subito svanisce, di poter cogliere, per l’Io poetico, il senso profondo della vita.

Trova posto in questa raccolta anche la dichiarazione della poetica del “non” con la celeberrima Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, con la quale Montale si dichiara adatto a testimoniare una vita priva di certezze e di valori, un autore lontanissimo dalle figure dei poeti vati del passato, un poeta che sa solo, socraticamente, ciò che non è e ciò che non vuole.

Come non citare, poi, l’essenziale e nitida poesia che con le sue metafore è diventata immagine meravigliosa del concetto del “male di vivere” (Spesso il male di vivere ho incontrato) in cui il messaggio, l’idea del male di vivere, è affidata a tre figure concrete (il rivo strozzato, la foglia accartocciata, il cavallo stramazzato), sublime esempio dell’oggettualità che caratterizza tanta poesia montaliana (e che si lega al correlativo oggettivo di Thomas Stearns Eliot).

In tutto ciò emerge la figura della donna, l’unica a potersi porre come mediatrice delle “impossibili possibilità”, colei che potrebbe cogliere il segno dell’altra orbita; è la donna conosciuta nelle “estati lontani” di Monterosso (dove Montale aveva una casa di famiglia) ma adesso assente, Annetta-Arletta, la prima delle tante donne salvifiche cantate da Montale (Dora Markus, Mosca, Volpe…).

Troppo ancora ci sarebbe da dire su questo autore, pertanto meglio fermarsi e lasciar spazio alle sue parole, con la poesia che è il testo montaliano più divulgato: si tratta di uno dei più tipici paesaggi di Montale, in cui l’ambiente viene presentato con caratteristiche di aridità, canicola, scabra essenzialità che sono le caratteristiche salienti del paesaggio di Ossi di seppia. A voi dunque: Meriggiare pallido e assorto.

 

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia

sentire con triste meraviglia

com’è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.


genere: poesia

anno di pubblicazione: 1925


 


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